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Il vero "change" di Obama: basta sogni

La crisi e il calo di popolarità l’hanno segnato. Ma ora è in rimonta, anche per meriti non suoi

Il vero "change" di Obama: basta sogni

Barack Obama ha un altro anno da presidente. Almeno uno. Si vota il 6 novembre, lui resterà comunque alla Casa Bianca fino al 20 gennaio prossimo. Poi chissà. Guarda i repubblicani che si scannano per decidere chi sarà l’avversario che gli contenderà la presidenza. Guarda l’America. È messa meglio di un anno fa, sì. Ma zoppica ancora. E con il Paese zoppica un presidente che è molto cambiato: Obama ha smesso i panni del Messia. Non li indosserà neanche in campagna elettorale, perché ogni cosa ha il suo tempo e per lui è finito quello dei sogni. Tre anni di presidenza hanno modificato molte cose, oltre all’aspetto molto più contrito e molto meno rilassato. Sono cambiate molte parole: l’abbiamo visto, l’abbiamo letto, l’abbiamo analizzato. Yes we can non c’è più: lo slogan della campagna che lui spera lo confermi alla presidenza è «Change is». Vale come motto propagandistico e vale per molte altre cose: Obama ha cambiato praticamente tutto lo staff per ragioni diverse che vanno dai litigi che stavano diventando patologici dentro la squadra, alla necessità di mandare i suoi più fidati consulenti a studiare le mosse e le strategie per potergli permettere di restare alla Casa Bianca.

Anche lui è diverso. Il presidente oggi ha perso il magnetismo che lo caratterizzava nella campagna elettorale 2008: all’epoca era uno capace di convincere un agricoltore del Tennessee che presto la terra arida si sarebbe trasformata in fertile. Oggi è un uomo assalito dalla realtà. La batosta presa con la riforma sanitaria deve averlo fatto strutturare parecchio. Gli sembrava di aver vinto quel giorno in cui passò la sua legge: «Questa non è una riforma radicale, ma è una riforma importante», disse. Lui aveva che aveva vinto, lui che in quel momento s’era messo a posto la coscienza e avrebbe potuto pensare solo e soltanto a guidare il Paese più importante del mondo. Perché nell’attesa del voto, la Casa Bianca s’era fermata. È come se Obama sia rimasto in campagna elettorale perenne, con l’idea fissa di approvare questo provvedimento che aveva garantito e sul quale aveva giocato parte dell’ultima tranche della volata verso la presidenza. Quattordici mesi di governo nei quali era crollato nella popolarità e nel gradimento della gente, quattordici mesi in cui c’era stata la crisi economico-diplomatica con la Cina, quella con Israele, l’incremento delle truppe in Afghanistan, la fase di transizione in Irak, la ripresa della minaccia terroristica sul territorio americano, la crisi economica, il crollo dell’occupazione. E lui? Sembrava concentrato solo sul giardino di casa: su quella riforma sanitaria che mezza America non ha mai voluto. Il voto del Congresso di quei giorni cancellò i fantasmi del fallimento, l’idea, che cominciava a serpeggiare, di un presidente debole e incapace di affrontare e risolvere i problemi. Ebbene, quella riforma non c’è già più: l’Obamacare è stato seppellito di fatto dalle decine di eccezioni e dalle cause ai tribunali federali, dal sospetto che la Corte Suprema possa bocciarlo.

Obama nel frattempo ha perso ancora di più: il Paese gli è scivolato via dalle mani per tutto il 2010 e anche per almeno dieci mesi del 2011. L’economia giù e con lei la popolarità del presidente che ha beneficiato dell’uccisione di Osama Bin Laden, ma che poi è andata in picchiata. Barack ha perso il sorriso, ha modificato l’approccio, ha smesso di fare interviste a reti unificate. Ha aspettato. Ha sperato. Da un paio di mesi il vento ha girato: gli indicatori economici della disoccupazione, della crescita, del mercato sono migliorati e lui ha ripreso vigore. Fortuna, sì. L’inverso della sfortuna che aveva avuto a ereditare un Paese in piena crisi finanziaria: è la compensazione del destino che dà e toglie a seconda delle sue esigenze. Obama, nel frattempo, ha modificato anche l’approccio con gli avversari: per due anni ha attaccato i repubblicani in ogni modo. Ora meno. Sa che l’America vota mai per chi passa il tempo solo a massacrare i nemici: scelgono il più ottimista, scelgono quello che gli trasmette di più, scelgono quello che possa governare meglio.

Twitter: @giudebellis

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