Il vero federalismo è anche culturale

I l nome di Denis de Rougemont è primariamente legato a un saggio che lo studioso svizzero scrisse all’alba della Seconda guerra mondiale, L’amore e l’Occidente, in cui è delineata una netta contrapposizione tra l’amore come vicinanza all’altro e l’amore come passione, tra agape ed eros, tra il riconoscimento del prossimo e quella tempesta emotiva nella quale chi c’è dinnanzi è solo un’occasione e un pretesto. Ma dopo quel testo e sviluppandone alcuni intuizioni, la sua riflessione si è incamminata soprattutto verso un ripensamento dell’Europa grazie a istituzioni federali.
La recente pubblicazione di un volumetto intitolato Federalismo culturale (portato in libreria dall’editore ticinese Pagine d’arte, pp. 42, 12 euro) permette di riscoprire la specificità dell’impegno politico di De Rougemont e il suo forte radicamento nella tradizione elvetica.
Il testo è quello di una conferenza tenuta nel novembre 1963 a Neuchâtel, la sua città natale. L’occasione venne dal venticinquesimo anniversario dell’Institut Neuchâtelois, un centro di cultura che molti anni prima - tra l’altro - aveva commissionato a lui e al musicista Arthur Honegger un’opera lirica, il Nicolas de Flue, nella quale c’è un ritratto assai vivido di quell’eremita del XV secolo del cantone di Obwalden che si batté per il rispetto reciproco e la pace, e che occupa un ruolo importante nella rappresentazione di sé della Svizzera. De Rougemont era dunque legato a quell’istituzione e nel suo intervento enfatizza l'importanza dell’incontro tra culture diverse.
Il punto d’avvio è polemico. Solo qualche giorno prima aveva ricevuto uno scritto dell’economista tedesco, ma svizzero d’adozione, Wilhelm Röpke, che esprimeva giudizi negativi nei riguardi del processo di unificazione continentale. In particolare, questi denunciava i pericoli per la libertà che potevano derivare dall’«enorme impasto di un’Europa una e indivisibile, un'Europa giacobina, sansimoniana, un rullo compressore che schiaccia al suo passaggio tutte le peculiarità politiche, spirituali e morali».
Come l’autore di Civitas Humana, De Rougemont avversa ogni ipotesi di un’Europa subordinata a un’unica sovranità, ma diversamente da lui non crede reale tale pericolo. L’idea dell’Europa-Stato, ai suoi occhi, semplicemente non esiste. Vi sono invece due alternative: l’Europa delle Patrie, centrata sugli Stati nazionali, e una vera federazione che sappia preservare le specificità (in primo luogo, regionali e cittadine) dandosi pure una forte capacità d’azione comune. Si tratta, per usare le sue parole, di «elvetizzare l’Europa».
A quasi cinquant’anni di distanza da quella conferenza dobbiamo riconoscere che di fronte all’Unione in costruzione si rivelò assai più acuto lo sguardo di Röpke. L’autore de L’amore e l’Occidente detestava a buon diritto gli Stati nazionali, ma non comprese come l’europeismo fosse figlio della stessa ideologia statolatrica. Nella conferenza egli insiste soprattutto sull’importanza del mercato comune e sull’esigenza di affrancare la cultura da ogni controllo politico: l’Europa, insomma, gli appare soprattutto come l’occasione per integrare economie e dibattiti, aumentando l’autonomia degli intellettuali e delle università.
Egli aveva colto bene come la tragedia del Vecchio Continente, travolto da due guerre mondiali, fosse legata alla centralizzazione operata dagli Stati. Ai suoi occhi la federazione europea doveva rappresentare la possibilità di deporre le logore bandiere nazionali che hanno causato tanti lutti, permettendo lo sviluppo di un vero pluralismo. Significative le parole sul controllo statale dei mezzi d'informazione: «la televisione oggi al servizio degli Stati gioca lo stesso ruolo massificante che avevano l'istruzione pubblica nel XIX secolo e la propaganda negli anni in cui trionfavano i totalitarismi». Per De Rougemont, indebolire lo Stato significa insomma rivitalizzare le periferie e l'Europa è apprezzata proprio per il suo potenziale libertario.


Nella complicata fase storica che il nostro Paese sta vivendo, legata alla riscoperta (soprattutto a sinistra) di una mitologia risorgimentale da tempo confinata in pagine ingiallite, De Rougemont può aiutare a riscoprire la complessità culturale che caratterizza un Paese quale l’Italia, il quale contiene al proprio interno tante realtà, istituzioni e storie tutte meritevoli di essere salvaguardate. Tanto più che - come proprio queste pagine sottolineano - ogni vera tradizione è tale se è viva, e quindi capace di evolvere, cambiare, assumere caratteri nuovi.

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