Il vero Leopardi è figlio di Omero e di Rousseau

Il successo di un libro come quello di Pietro Citati (Leopardi, Mondadori, pagg. 436, euro 22) sta a dimostrare che nel nostro Paese esiste ancora una buona fascia di lettori in grado di dialogare con la letteratura al suo più alto grado di espressione. Il libro si impone intanto per la sua grande ricchezza, per la sua orchestrazione ampia e profonda, ma anche per la leggibilità ariosa e coinvolgente. Non è una biografia di Leopardi. Non è un dotto saggio critico sul poeta di Recanati. Ma è tutte e due le cose e di più, una diramata e stratificata indagine sul nesso che lega l’anima del poeta al suo tempo, alla sua vita e alla sua opera, un ritratto totalizzante, dalla cui lettura usciamo con la sensazione di conoscere Leopardi come forse non l’avevamo mai conosciuto.
Il libro inizia, paradossalmente, con un tono rossiniano, da opera buffa, nella descrizione del «reazionarissimo» conte Monaldo, «bizzarro ed estroso, meschino e donchisciottesco». In pagine altrettanto riuscite vediamo Adelaide Antici Leopardi, donna bellissima che «voleva punirsi di una bellezza troppo umana», il fratello Carlo che era molto più mobile, scherzoso e amante della vita, la sorella Paolina sensibilissima, dalla intelligenza «sospettosa e maniaca», capace di sentirsi «predestinata all’infelicità».
Citati ci racconta il corpo e lo spirito del poeta. A 16 anni Leopardi è ancora sano e diritto, qualche anno dopo appare devastato da problemi che non sono dovuti al rachitismo, ma alla tubercolosi ossea, e poi a una depressione psicotica, dovuta al fatto che si sente colpevole della propria malattia, che crede di essersi inflitto con i celebri sette anni di studio «matto e disperatissimo». Ma questo corpo orribilmente piagato dalla malattia conteneva una mente dalla immensa vitalità, che sapeva trovare energia nella debolezza, che pensava che «tutto è male» eppure abitava la patria innocente e infinita della letteratura. Una mente estranea al proprio tempo, che detestava il moderno, la moda, nemico di ogni progressismo, con una concezione della storia come regressione. Una mente che vede gli uomini moderni vivere nell’irreale, «immobili e silenziosi come la morte, cinguettanti come la moda», nondimeno straordinariamente moderna nel proiettarsi in avanti e prefigurare vertici drammatici del pensiero novecentesco, come quello di Nietzsche o di Spengler.
Mi hanno colpito nel libro, fra tante intuizioni che rinnovano l’immagine di Leopardi, l’idea della sua concezione della luna che capovolge la teologia lunare classico-cristiana. Qui Citati ritrova l’energia delle sue pagine giovanili su Goethe, con una vasta trama cosmogonica, mitologica, quasi sapienziale. La luna che con la sua luce innerva tanti versi dei Canti ha perso in Leopardi la sua forza fecondatrice, il suo rapporto con le maree, la sua mutabilità. Ora è solo la luna: graziosa, diletta, tacita, silenziosa, vergine, intatta. Regina dei sogni, viaggiatrice del cielo. Citati rintraccia acutissimamente la lontana fonte generativa di tante immagini leopardiane nei versi del canto VIII dell’Iliade, un grandioso notturno omerico in cui la luna splende in una calma di vento, mentre si apre uno spazio indicibile sotto la volta del cielo, dove gioisce un pastore. E poi trovo molto nuova l’interpretazione di una poesia tra le meno lette, Il risorgimento, dalla cantabile metrica settecentesca («Credei ch’al tutto fossero/ in me, sul fior degli anni,/ mancati i dolci affanni/ della mia prima età...»), che Leopardi, con un occhio a Rousseau ammiratore di Metastasio, scrive come una storia della propria vita in quattro tempi, dall’infanzia in cui era beniamino della natura e dalla fine dei «dolci affanni» sino al gelo dell’anima e alla resurrezione. Una laica resurrezione che avviene nel cuore umano con quel suo eterno oscillare tra dolore e piacere, già esemplarmente individuato da Goethe.
Il lettore infine viene sedotto dalla prosa di Citati. Che qui è robusta, polifonica e cangiante più che altrove. Ricca di qualità non mimetiche ma capaci di perfette sintesi, di scorci, di affondi, di fughe. Il ritrattista eccelle, come a esempio nei cammei sulle dame della Pisa di allora, Laura Cipriani Parra, che nella sua avventurosa vita incrocia principi che splenderanno in Guerra e pace e un patriota avo di Indro Montanelli, Elena Mastiani Brunacci, modella di Canova, ospite di Alfieri e della contessa d’Albany, Lady Margareth Jane King, poi Mrs Mason, grande amica di Shelley.

Ed eccelle nel ritrarre la Napoli dove Leopardi passa gli ultimi anni, città-ventre, inscritta nel giro lutulento di mangiare e defecare, in un trionfo di pastiere e casatielli, raffioli e franfelicchi, e gelati, sopra tutto gelati, quelli di Vito Pinto, il celebre gelataio che divenne barone. Il conte Leopardi se ne morì dolcemente in quella città sinistra e allegra. L’ultima parola che pronunciò fu «luce».

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