Versi afosi per l’estate una stagione all’inferno

Macché sole e mare Per i poeti è il periodo dell’anno dominato da malessere e follia

Estate! Stagione, scriveva Cardarelli, «dei densi climi/ dei grandi mattini/ dell’albe senza rumore/. Ci si risveglia come in un acquario». Immagine memorabile, coincidente con l’idea di riposi assoluti, calme abissali, sospensioni del tempo. Sul tema, risultano più mosse le rappresentazioni offerte da Vittorio Sereni, dove l’estate fa da metafora alla maturità, alla stagione della vita che intravede il declino ma, ancora, non si decide a declinare: «E non è primavera, è un’estate,/ l’estate dei miei anni».
Eppure, andando in giro, il flâneur di cose letterarie si imbatterà spesso in immagini terrificanti, dove l’estate viene assimilata al malessere, ai nervi scoperti, alle metamorfosi di una natura lanciata verso la decomposizione e la morte. Forse, non è un caso se le pagine più forti di Manzoni, quelle sulla peste milanese, sono associate a una calura diffusa, totale, mai descritta frontalmente e, proprio per questo, incombente, infernale. Ma anche Dostoevskij, in quanto a estate, non scherza: nella San Pietroburgo di Delitto e castigo c’è la luminosità perenne delle notti bianche. Che toglie il sonno, fa sudare, eccita la testa spingendo i pensieri nelle zone dell’allucinazione. Avviene come se, in presenza di caldo e luce, corpo e mente umani si riscoprissero esposti, indeboliti. L’estate è, allora, il tempo in cui la realtà appare più ostile, incattivita, punitiva, schiantatrice, produttrice di disfacimenti. E nelle rappresentazioni più dure viene evidenziato il lato violento, distruttivo. Ma ancora più dure sono quelle in cui l’immobilità canicolare, la calma prima dei temporali quasi personalizza la tensione invisibile di un mondo sul quale incombe qualcosa di tremendo, di non ancora detto e, proprio per questo, massimamente inquietante. Penso a questa potentissima allucinazione verbale di Milo de Angelis: «giunge luglio per i morti/che sentono nell’assedio/ di ogni fiore/ una giustizia remota...». A volte l’estate sembra essere l'anticamera della fine. È una versione, in qualche modo, apocalittica. Ma, tornando a raffigurazioni più «moderate», è comunque un tempo che non fa stare bene. Attraversato da arie insalubri, vapori mefitici, sofferenza, come diceva il Parini: «Spenti animai, ridotti/ per le frequenti vie,/ de gli aliti corrotti/ empion l’estivo die».
E allora può essere perfino che gli antichi e nuovi idilli, le infinite immagini edificanti e liete altro non siano che medicine visive o verbali per sostituire, cancellare, rimuovere una stagione che è difficile passare senza danni. Per questo, da sempre, l’umanità si beve feste campestri, colori, persone liete e sensualizzate, spighe da tagliare, cieli limpidi. E smanie della villeggiatura. E la nuda Aestas di d’Annunzio. Mitologie rasserenanti sovrapposte a mitologie infernali. Ma a tutto c’è una contro-immagine. Così, lo stesso d’Annunzio fa il verso a se stesso trattando dell’estate urbana: «Ben vi so, torridi giorni/ meriggi funerei/incontri spaventosi/ di cerei volti disfatti,/ via chiusa tra mura di forni...». Così, all’idillio celebrativo di luglio del duecentesco Folgore da San Giminiano, («D’agosto vi do trenta castella/in una valle d’alpe montanina») il contemporaneo Cenne da la Chitarra replicava acidissimo: «e sia sì forte e sì terribil caldo/ com’ha il solleone a la finita...»
Epure, anche l’estate passa. E c’è sempre qualcuno che la rimpiange.

Per esempio Apollinaire: «Oh! l’automne l’automne a fait mourir l’été/ Dans le bruillard s’en vont deux silhouettes grises». (Oh! L’autunno l’autunno ha fatto morire l’estate/ Nella nebbia se ne vanno due figure grigie).

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