«Vi spiego i segreti di Kay Scarpetta»

Si chiama semplicemente Kay Scarpetta (Mondadori) l’ultimo romanzo di Patricia Cornwell che ormai da qualche mese svetta in cima alle classifiche di vendita mondiali e con il quale la scrittrice conferma il suo rapporto duraturo e indissolubile con l’anatomopatologa più conosciuta della letteratura thriller. Vent’anni di successi durante i quali la scrittrice statunitense è riuscita a tenere ben saldo nelle sue mani lo scettro di regina del genere.
Prima del suo debutto, nel 1990, con Post Mortem, le scienze forensi erano pressoché ignote ai lettori. Pochi sapevano come si effettuasse un’autopsia e quanto questa potesse essere decisiva nelle indagini su efferati crimini. È vero che in precedenza scrittori come Robin Cook, Michael Crichton e Jonathan Latimer avevano fatto spesso entrare i lettori fra le mura degli obitori di stato e che il patologo legale Quincy (interpretato sugli schermi dall’attore Jack Klugman) fra il ’76 e l’83 aveva stimolato le passioni medico-poliziesche di molti telespettatori, ma è stata proprio la Cornwell, con la creazione di Scarpetta, a scatenare la passione per il forensic thriller.
Serie televisive come Csi, Ris, NCIS, Criminal Minds, Bones devono molto alle storie che hanno per protagonista l’anatomopatologa Kay. La verosimiglianza clinico-poliziesca delle sue storie, la precisione nell’ambientazione, l’abile montaggio degli eventi e la forte connotazione psicologica dei personaggi (oltre alla carismatica Kay, l’inquieta nipote Lucy Farinelli, l’imprendibile serial killer Temple Gault, il corpulento agente Pete Marino) sono i motivi della supremazia della Cornwell.
«Da bambina - ci spiega la scrittrice -, contrariamente a quanto potreste immaginare, visti i romanzi che scrivo, non leggevo storie terribili e piene di ossessioni, bensì favole. Avventure ricche di magia e immaginazione come quelle dei fratelli Grimm, in cui magari si trattava il tema del male e della violenza attraverso le figure di terribili streghe, ma che regalavano al contempo stupore, evasione e fantasia a una bimba come me. In molti di quei racconti, tuttavia, era forte l’elemento della suspense. Inoltre, ho cominciato presto ad appassionarmi a libri non di fiction, ma di archeologia. Mi divertivo a leggere le ricostruzioni della scoperta di Troia e di altri siti antichi. Le scienze forensi curiosamente sono molto vicine all’archeologia e ne hanno preso a modello il sistema di ricerca. Gli anatomopatologi ricostruiscono l’identità di un cadavere e la sua provenienza così come gli archeologi individuano un terreno e al suo interno trovano e analizzano i resti di un’antica civiltà».
Quando ha cominciato a sentire l’esigenza di esprimersi attraverso la scrittura?
«Per me scrivere è stata una necessità, più che una scelta. Da quando ho imparato a tenere in mano una penna ho sentito che non potevo farne a meno e ho cominciato a buttare giù dei testi. Ero piccolissima, ma scrivevo già microstorie che poi illustravo. A volte realizzavo anche una bella copertina di cuoio per personalizzare ancor di più i miei piccoli libri. Giravo spesso con un taccuino per gli appunti dove raccoglievo, ricordi, frasi, storie che portavo sempre con me».
E poi, una volta cresciuta?
«È stato solo ai tempi del college che ho potuto avere consapevolezza che la scrittura mi dava così tanto, anche se certamente non potevo ipotizzare che sarebbe diventata per me un mestiere. Mi piaceva molto scrivere e d’altra parte sapevo che diventare scrittori poteva essere un salto nel buio. Ma ho scelto di farlo, ed è stato un ottimo investimento».
Perché ha scelto di dedicare tutta la sua carriera a un genere come il thriller?
«Se guardo al mio passato, posso dire che le radici di ciò che scrivo oggi sono state ben salde fin dalla mia giovinezza. Fin da piccola tutti i miei racconti iniziavano con l’espressione “d’un tratto”. Questo perché ogni volta mi piaceva sottolineare come qualcosa di fantastico, sconvolgente e tenebroso potesse irrompere nella normalità. Mi immaginavo sempre qualcosa di spaventoso che saltava fuori dall’ombra e dall’oscurità e cambiava il corso degli eventi, dando sapore a ciò che stavo scrivendo».
E dopo il college?
«Questa mia passione mi ha portato dopo il college a intraprendere la carriera di giornalista e in particolare mi ha spinto a occuparmi di cronaca nera. Ho scoperto così il nostro sistema giudiziario, l’organizzazione della polizia, le scienze forensi. E a quel punto mi sono accorta non solo di avere una propensione personale verso certe tematiche, ma anche di possedere competenze specifiche nel mondo delle indagini sui crimini. Da qui è stato naturale per me scegliere la via del thriller».
È vero che Kay Scarpetta non avrebbe dovuto essere la protagonista principale dei suoi romanzi?
«Dopo aver lavorato in un ufficio medico legale in Virginia per documentarmi sulla materia dei romanzi che intendevo scrivere in quel periodo, iniziai a creare storie con protagonista un investigatore uomo. In quei thriller Kay Scarpetta esisteva già nelle sue vesti di anatomopatologa, ma aveva un ruolo di contorno».
Come andarono quei primi libri?
«Tutti e tre i romanzi che scrissi all’epoca furono respinti. E quando anche l’ultimo fu rifiutato da una casa editrice di New York decisi di chiamare l’editor che aveva bocciato la mia storia, anche se sapevo che uno scrittore non dovrebbe mai fare una mossa del genere. Le chiesi esplicitamente che cosa non andava nella mia scrittura e se dovevo rinunciare in partenza oppure se avevo la stoffa e dovevo solo insistere».
Quale fu il «responso»?
«L’editor mi disse che le piacevano sia il mio stile, sia le mie storie, ma che il mio personaggio principale non funzionava. Il suo carattere e il suo modo di atteggiarsi non erano credibili ed era impossibile che convincessero i lettori. Aggiunse che invece le piaceva moltissimo il personaggio di Kay Scarpetta, trovava originali e affascinanti le sue caratteristiche e disse che avrei dovuto darle più spazio. Io conoscevo già il carattere di Kay, ma quando l’avevo creata mi ero preoccupata delle difficoltà di dovermi ulteriormente documentare su un mondo così particolare come quello della patologia legale. Per questo l’avevo ridimensionata. Ma dopo la chiacchierata con l’editor mi sono messa a lavorare su una nuova storia che sarebbe diventata poi Post Mortem. Da lì, come sapete, non ho più cambiato percorso».
Quanto si è modificata la sua eroina con il passare degli anni?
«È cresciuta parecchio, e oggi mi piace molto più di quando la concepii. Il primo libro risale all’88, anche se uscì più tardi. Quando Kay fa la sua prima apparizione è molto giovane e ha poca esperienza, anche se poi cresce professionalmente nel giro di pochi romanzi. Va tenuto presente che all’epoca poche donne ricoprivano un ruolo come il suo, sia dal punto di vista letterario, sia da quello clinico. Nel tempo sicuramente Kay si è addolcita e molte caratteristiche spigolose che aveva si sono ammorbidite. La stessa medicina legale ha fatto molti progressi, quindi ho dovuto aggiornare le conoscenze scientifiche del mio personaggio. Direi che oggi è una donna molto più saggia».
Come ha scelto il cognome Scarpetta?
«Mi piaceva anzitutto l’idea di poter omaggiare l’Italia di cui amo molto la lingua e la cucina.

Non sapevo, quando lo inventai, che Scarpetta significasse “piccola scarpa” e che “fare la scarpetta” volesse dire raccogliere con il pane il sugo avanzato nel piatto. Ma nel mio ultimo romanzo ho inserito una... gustosa scena che spiega anche questo».

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