Viaggio a Shangri-La il (finto) paradiso cinese tra le vette himalayane

Pechino ha trasformato una vecchia cittadina nell'Atlantide del Tibet, capace di attirare tre milioni di turisti

Quando dopo un rosario di curve finisce la salita, si ha subito l'impressione di essere arrivati in un luogo diverso. Siamo oltre i tremila metri d'altitudine, un velo di neve sporca il lunotto del bus anche se il calendario dice primavera. Le montagne tropicali dello Yunnan sono qualche chilometro più in basso, questo - anche se non amministrativamente - è già Tibet, terra di serenità e inquietudine. Qualche maestoso yak compare tra le grandi case che ora non sono più di legno, ma in pietra. Le abitazioni sono tinteggiate di tutte le tonalità del rosso: dal cremisi al quasi arancione, fieri colori del simbolismo religioso tibetano. Rispetto alla Cina delle megalopoli e delle campagne polverose qualcosa è cambiato.

Ma forse non è vero: non è un posto diverso. È solo suggestione da marketing turistico. Eppure, finalmente, si è arrivati a Shangri-La, Atlantide di montagna: città fantastica e irraggiungibile. Utopia himalayana di un luogo mistico e felice, permanentemente isolato dal resto del mondo. Terra sempre nominata e mai trovata, come si addice ai miti di tutte le latitudini e tutte le religioni.

Anche se, ammettiamolo, fa alquanto strano arrivare in un luogo tanto caro alla fantasia, qualcosa che nella mente dei viaggiatori sta accanto a Samarcanda, Timbuktu e Ushuaia, dopo solo sei ore di comodo bus. Per giunta sorseggiando Coca Cola e guardando per tre volte un film cinese in costume e senza sottotitoli. Non doveva essere un posto isolato dal resto del mondo?

Doveva. Ma grazie alla furia edificatrice dei cinesi, che asfaltano nuove strade con la stessa noncuranza con cui producono magliette tarocche, oggi ci vuole davvero poco ad arrivarci da Lijang, nell'estremo nord-Ovest della provincia dello Yunnan, fino alla fantasticata Shangri-La. Che poi, per capirci: qualche anno prima che decidessero la costruzione di questa nuova strada la cittadina cui ci stiamo avvicinando neanche non si chiamava Shangri-la. No, no. Era Zhongdiàn, uno dei tanti insediamenti a maggioranza tibetana - non certo il più importante - in questa zona dell'altipiano himalayano incastonato tra le bellissime e alte (arrivano quasi a 7.000 metri) che circondano la faticosa strada del tè e dei cavalli. Direttrice per secoli dalla tropicale Dali ha portato a Lhasa e poi oltre, in Nepal, fino in India.

A giudicare dalle foto d'epoca non doveva essere neanche tanto bella come città. Solo che, con il fiuto degli affari che si ritrovano, nel 2002 i governanti cinesi hanno deciso di ribattezzarla Shangri-La convinti che fosse il posto giusto per portare i turisti occidentali attratti dall'idea di raggiungere un luogo a suo modo mitico. «Missionari e avventurieri occidentali, che avevano solo sentito parlare di questo mitico posto al di là di inaccessibili montagne di ghiaccio, si misero in cammino affascinati da questa sacra, isolata, lontananza volendo svelare l'ultimo mistero dell'Oriente», scrive Tiziano Terzani parlando di Shangri-La. E allora entriamo in questo mito di seconda mano.

Zhongdiàn per diventare Shangri-La e goderne i vantaggi ha battuto la concorrenza di altre cittadine di montagna sparse tra qui e la provincia del Gansu. Da allora l'hanno ricostruita quasi da zero: perché nulla si crea e tutto si inventa. Frase ancor più vera in Cina, Paese dove tutto si può edificare e falsificare dandogli una patina di antico che sa tanto di villaggio outlet a bordo autostrada. Il vecchio quartiere popolare che sorge intorno al tempio appoggiato su di una piccolo collina è l'epicentro della vita cittadina, almeno quella a uso turistico. Botteghe gestite da cinesi han offrono una quantità spropositata di ricordini tanto kitsch quanto scarsamente autentici: cappelli in pelo di yak, magliette rosse con ideogrammi color oro che invitano alla pace perpetua, pashmine sintetiche, ninnoli in simil argento, tanti piatti e qualche coltellaccio di certo non svizzero. E poi campane tibetane, coppette di rame, tappeti artigianali tutti uguali e qualche libro sul buddismo, che però non pare interessare. Interessano eccome invece i ristoranti, il cibo è uno dei motori dei turisti cinesi. Così i cuochi sfornano ravioli di yak e spaghetti in zuppa, verdure bollite (poche) e carne di montone; mentre i camerieri servono tè allo zenzero che si dice combatta il mal di altitudine. Che in effetti si sente. L'aria, tersa e sottile, è vera, almeno quella. Il resto, insomma.

E chissà come doveva essere questo posto prima. Oggi sembra desolato e tutto da rifare: nel gennaio di un anno fa un devastante incendio - pare causato da un corto circuito - ha abbrustolito la maggior parte di questa Disneyland d'alta quota capace di attirare tre milioni di turisti l'anno. Fuori dal centro, che - c'è da giurarci - in breve verrà rimesso a nuovo pronto a sembrare vecchio, Shangri-La/Zhongdiàn è una compiuta espressione del boom cinese. Nonostante ci si trovi su un altipiano a 3.200 metri, ci sono strade a tre corsie, palazzi a otto piani e un cospicuo numero di edifici pubblici, monumentali e di dubbio gusto, uguali a quelli che oggi trovi in tutta la Cina. Segno ben visibile che qui, in terra di agguerrite minoranze tibetane, sono arrivati gli han, l'etnia dominante di tutta la Repubblica popolare. È arrivato il potere, quello che con un decreto cambia il nome e riscrive il destino di una città e della sua gente. Eri un tranquillo posto di alta montagna che viveva di commerci e poco altro? Ora sei una destinazione turistica pianificata. Prendere o prendere.

E allora: tutto intorno non c'è davvero niente che giustifichi un viaggio fin quassù a parte la delusa curiosità di arrivare in luogo letterario mitico e irreale? C'è, c'è. Sta a pochi chilometri dal centro ed è incredibilmente sopravvissuto alla furia modernizzatrice dei cinesi. È un villaggio veramente antico, poche case screpolate con tetti di scisto cresciute a grappolo intorno alle mura del Ganden Songzanlin: magnifico monastero buddista, replica in scala del Potala di Lhasa. Durante la Rivoluzione culturale era stato ridotto pressoché in macerie, svuotato da maestri e studenti. Ora lo stanno sistemando. La mattina se ci si addentra nelle imponenti stanze del tempio si vedono i giovani allievi che, intabarrati nelle pesanti vesti rosse e arancioni, ripetono i mantra e ascoltano gli insegnamenti dei monaci adulti. Davanti il monastero c'è un piccolo lago alpino circondato di colline sulle cui sommità sventolano colorate bandiere votive. Sul far della sera monaci e abitanti ne fanno il periplo a passo svelto. Snocciolando i grani del rosario o facendo girare quella specie di carillon che contiene i mantra buddisti. I turisti sono pochi, pochissimi. Per arrivare fin qui o sei residente o dormi nell'unica struttura del villaggio (un resort lussuoso ma non pacchiano) o paghi un biglietto. Cosa che scoraggia quella strana accozzaglia di hippy cinesi - sì, esistono - che hanno preso a prestito il mito confezionato in Occidente e arrivano qui a Shangri-La a cercare chissà cosa. Forse quel paradiso perduto di cui vagheggiava lo scrittore inglese James Hilton, cui si deve la moderna creazione del mito del Paradiso perduto.

Forse solo una fuga momentanea dal caos delle megalopoli della costa. Fatto sta che questo villaggio è uno dei luoghi più perfetti e originali che si possa trovare in tutta la Cina. Non si chiamerà Shangri-La, ma forse è meglio così. Questo è davvero un posto diverso.

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