MilanoIl giorno in cui la sentenza venne pronunciata, si scomodò persino lambasciatore americano a Roma. «È un attentato alla libertà», disse. Ora, a distanza di quasi due mesi, il giudice del tribunale di Milano, Oscar Magi, spiega che «libertà» è una cosa, e altra cosa è l«arbitrio». Nel mezzo cè un solco. Ed è una legge che non corre quanto la tecnologia, ma che segna ugualmente un limite entro cui fermarsi. Internet - spiega Magi - non è una «sconfinata prateria dove tutto è permesso e niente può essere vietato». Per questo Google è colpevole. Perché il confine della privacy, quando migliaia di utenti del web videro il filmato di un disabile umiliato dai suoi compagni di classe, non venne adeguatamente protetto. Così, tre dirigenti del più grande motore di ricerca del mondo sono stati condannati. Linformativa sulla protezione dei dati sensibili era «talmente nascosta nelle condizioni generali di contratto da risultare assolutamente inefficace per i fini previsti dalla legge». Ma per Google «il patrimonio informativo è la vera miniera, e una corretta applicazione della legge sulla protezione dei dati personali potrebbe irrimediabilmente frenare la corsa alloro». Che altro non è che il mercato del cyberspazio, limmensa torta da contendere agli altri provider.
In 108 pagine di motivazioni, il giudice Magi spiega la condanna a sei mesi di reclusione di tre manager di Google Italy per violazione della privacy, e assolti dallaccusa di diffamazione. Il motore di ricerca - scrive il magistrato - entra nel panorama dei filmati on-line attraverso «una piattaforma video di libero accesso e in grado di massimizzare la sua potenzialità diffusiva anche tramite la diffusione di video ripresi con i cellulari». Non, dunque, «video di qualità», ma «qualsiasi tipo di filmato» per «lanciare la rincorsa al più temibile competitor quale era Youtube». Il servizio, sottolinea Magi, «veniva volutamente lanciato senza controlli». Perché? «Latteggiamento di completo disinteresse» per la tutela della privacy ha una ragione economica. Ogni clic sulle inserzioni pubblicitarie rappresenta un introito. Di qui, la «totale e deliberata omissione di qualsiasi attività che potesse in qualche modo ostacolare gli incrementi di profitto». E non solo, insiste il giudice, «nessuna raccomandazione sul tema della privacy è stata mai data a Google Italy» dalla casa madre, ma nemmeno «era stata prevista unanalisi testuale in relazione ai titoli dei video». Cioè, sarebbe bastato leggere il nome del filmato uploadato («In classe con sensibilizziamo i culi diversi landicappato a cagato», sic!) per bloccarlo subito.
Google, tuttavia, non è responsabile di diffamazione. «Non esiste - scrive Magi - un obbligo di legge codificato che imponga ai provider un controllo preventivo dei dati che passano ogni secondo sul web», dunque il motore di ricerca non è «automaticamente corresponsabile di tutti i reati che gli uploaders hanno commesso». Però, «nascondere le informazioni degli obblighi derivanti dal rispetto della legge» sulla privacy «costituisce una specie di precostituzione di alibi» da parte del provider, nonché lindice di un «interesse economico». In breve, conclude il giudice, «non è la scritta sul muro che costituisce reato per il proprietario del muro, ma può esserlo il suo sfruttamento commerciale».
I legali di Google insistono. Faranno appello contro una condanna che «attacca i principi stessi su cui si basa internet. Se questi principi non venissero rispettati, il web così come lo conosciamo cesserebbe di esistere e sparirebbero molti dei benefici economici, sociali, politici e tecnologici che porta con sé». Il punto è sempre quello.
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