«Vieni via con me» è il trionfo del gay-pridismo

Ma lei, caro Granzotto, cosa ha da dire sulla trasmissione Vieni via con me di Fabio Fazio e Roberto Saviano?
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Tutto il bene possibile, gentile lettrice. Grande show. Certo, si sentiva che battute, gag, tiritere, pistolotti e paternali del trio erano dovute e dunque ovvie. Però la prevedibilità non ha nociuto alla messinscena: anche da Ninì Tirabuciò tutti s’aspettavano la «mossa», tutti sapevano che a un certo punto la sciantosa avrebbe proceduto allo scuotimento del suo popò. Ciò non toglie che giunto il momento dalle turbe dei cultori della materia s’alzasse, scrosciante, l’applauso. Ma non è sul tessuto di Vieni via con me che io mi possa cimentare, gentile lettrice. È una cerchia, quella televisiva, che esula dalle mie competenze, per non parlare dei miei interessi. Però, non ho potuto fare a meno di cogliere in quella messa cantata «sinceramente democratica» un aspetto antropologico interessante. Fabio Fazio col suo birignao, Roberto Benigni col suo scutrettolante linguaggio corporeo, Roberto Saviano con il ben predisposto sembiante da «macho-macho man» alla Freddy Mercury, ecco, quel terzetto al quale ovviamente va aggiunto l’ospite d’onore, Nichi Vendola, pareva lì per sponsorizzare il Gay Pride. Lo dico senza paura di offendere gli interessati, ché già se avessi tale scrupolo potrei essere accusato di discriminazione; lo dico più che convinto che gli interessati medesimi ne saranno lusingati; lo dico attenendomi al canone politicamente corretto e usando vocaboli sdoganati da un Vendola in istato di grazia: per movenze e linguaggio, per quei sorrisini e quello sgranare gli occhioni, per quelle reticenze da verginelli o da Vispa Teresa di Paolo Poli, dalla brigata di Vieni via con me traspariva una palese consuetudine alla checcaggine, alla ricchionaggine. Che poi la parte o l’insieme fosse tale, checca o ricchiona che dir si voglia, questo non si sa e, rispettosi come siamo della privatezza altrui, nemmeno ci interessa. Però l’aria, l’impressione era quella.
Essendo evidente – i repubblicones lo hanno ripetuto con democratica caparbietà producendosi in chilometrici scritti, detti in gergo lenzuolate - che Vieni via con me rappresenta il nocciolo duro del pensiero progressista, se ne conclude che con quella trasmissione il gotha «sinceramente democratico» ha inteso legittimare una volta per tutte il primato politico (testimone Vendola), civile (testimone Fazio), culturale (testimone Saviano) e ludico (testimone Benigni) d’una certa way of life. I cui valori sono poi gli elementi scatenanti dell’isterico moto di indignazione – e di condanna – per l’entusiasmo riservato da Silvio Berlusconi alle competenze d’alcova. Non colpevoli in sé, su questo son d’accordo tutti, ma tali perché la grammatica amorosa berlusconiana (e quindi quel che ne vale di più, ossia la pratica) è declinata al femminile. Quindi non più trendy, assolutamente discriminatoria, in odore di fascismo, probabilmente anticostituzionale e un tantinello disgustosa agli animi più sensibili.

Il delizioso Fazio, insomma, ha voluto rassicurare i suoi e confermare a noi che se in luogo d’esser così rozzamente dongiovannesco l’animo di Berlusconi fosse stato più duttile e femmineo, più buliccio per dirla col maestro Vendola, le scappatelle gliele avrebbero fatte buone, e anzi. Avrebbe acquistato quelle benemerenze politicamente corrette che sono proprie degli autori, conduttori, ospiti e telespettatori di Vieni via con me. In pratica, quella che si autoproclama parte sana della nazione.

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