Villa Pallavicini restaurata solo a metà

Villa Pallavicini restaurata solo a metà

Una rinascita avvenuta solo in parte. Si può riassumere così la situazione del parco di Villa Durazzo Pallavicini, a Pegli, residenza settecentesca, arricchita dal giardino botanico, sorto per volontà della marchesa Clelia Durazzo Pallavicini, e circondato da un grande parco di 97.000 metri quadrati, realizzato tra il 1837 e il 1846 da Michele Canzio, scenografo del teatro Carlo Felice. All'epoca di Canzio, il parco era uno dei più famosi giardini all'inglese a livello europeo. Ma il degrado degli ultimi decenni ha quasi distrutto l'intera area che, solo di recente, ha subito una serie di restauri che l'hanno ricuperata parzialmente.
Il centralissimo parco, adiacente alla stazione di Pegli, è a pagamento, dato che l'ingresso gratuito, secondo la direzione, aveva contribuito a devastarlo. La struttura è aperta dal 1 aprile al 30 settembre dalle 9 alle 19 e dal 1 ottobre al 31 marzo dalle 9 alle 17. Tuttavia, ci vogliono circa due ore per visitarlo e, un'ora prima della chiusura, non si accettano nuovi ingressi. Il prezzo è di 3 euro per i genovesi e 3,50 per i «foresti». Se la visita comprende anche il giardino botanico, il prezzo sale, rispettivamente, a 5,50 e a 6,50 euro. Per ulteriori informazioni: tel/fax 010/661330. Per accedere al palazzo, si percorre un lungo viale alberato e lastricato da ciottoli molto decorativi, ma talmente sporgenti dal terreno che sembra di camminare sui chiodi come i fachiri. Le panchine si trovano solo alla fine del viale che conducono ad un'aiuola erbosa e a sentieri in ordine. La villa ospita il museo archeologico (aperto dal martedì al venerdì dalle 9 alle 19 e, nei fine settimana, dalle 10 alle 19. Tel. 010/6981048) e mostra l'intonaco un po' scrostato, sia lungo la facciata laterale, sia in quella principale, con presenza di buche sul terreno.
La visita al museo costa 4 euro e, tra reperti egizi, marmi romani e collezioni preistoriche, spicca anche la famosa Tavola bronzea di Polcevera, l'atto che sancì l'accordo stipulato nel 117 a.C. dalle antiche popolazioni dei Genuati e dei Veturii per la ridefinizione dei confini tra le due comunità. La cancellata principale per accedere al parco è chiusa e, di conseguenza, si deve girare intorno alla villa, scendere una ripida scaletta e passare da un terrazzino con una ringhiera molto bassa, che sporge nel vuoto a parecchi metri d'altezza. Operazione poco adatta a chi soffre di vertigini. Il primo slargo offre panchine nuove, raccoglitori dei rifiuti in ordine, prima di proseguire la visita salendo due lunghe rampe di scale. L'escursione, in realtà, è un viaggio attraverso un racconto simbolico e filosofico, ideato da Canzio come una sceneggiatura teatrale, costituita da un prologo e da tre atti. Il prologo alla narrazione è simboleggiato dal viale gotico ben tenuto e che introduce al viale classico attraverso la Casa del Caffé che, in origine, era un punto di ristoro, e che, nonostante i restauri, mostra l'intonaco già scrostato. Stesso problema all'interno e sul basamento del monumentale arco di trionfo che delimita il viale classico sul lato opposto. Superato l'arco, si giunge alla Casa rustica, edificio in pietra e dimora di un ipotetico eremita, posta all'inizio del primo atto della narrazione, che descrive il «Ritorno alla natura». Il suggestivo scorcio alpestre, pieno di abeti e agrifogli, è seguito dal giardino con vegetazione mediterranea. Proseguendo, si arriva al Belvedere che non ha più nulla di panoramico, perché la zona è stata mutilata dalla costruzione dell'autostrada per Savona. I percorsi intorno al belvedere sono impervi e un po' sterrati e lo slargo, con panchine vecchiotte, è completamente da riasfaltare.
La successiva area di sosta è nei pressi del lago vecchio, con le sue acque torbide, una cascatella quasi inesistente, alcune panchine in ordine e i servizi igienici in un capanno che è bisognoso di un'energica ripulita, dato che sporcizia e ragnatele sono ovunque. Qualcuno ha avuto l'idea di mettere ai piedi del lago una bacinella con del pane, che attira stormi di piccioni in picchiata sui malcapitati visitatori, intenti a superare il ponticello in legno. La parte alta del parco è lo scenario del secondo atto della narrazione, intitolato il «Ricupero della storia». Ma questa fase del viaggio, riferita alla vicenda immaginaria di un capitano feudatario ucciso in battaglia, i visitatori possono dimenticarsela perché i monumenti fiabeschi del Canzio, tra i quali il castello del capitano, la vicina capanna svizzera e la finta tomba degli eroi cavallereschi, sono in una zona in rovina e interdetta al pubblico, in attesa di restauri. Il terzo e ultimo atto è quello della «Purificazione». Secondo la scenografia di Canzio, una volta superata la contemplazione della morte del cavaliere, si doveva passare dalle grotte, simbolo del buio inferno dantesco, con un lago sotterraneo che, in origine, si attraversava in barca, per poi risorgere e vedere la luce del paradiso, rappresentato dal lago grande. Questo è il punto più famoso del parco, che rappresenta l'incontro tra le culture, con il tempietto greco di Diana al centro del lago, la pagoda cinese, il chiosco turco, con il suo terrazzino panoramico, il ponte romano e l'obelisco egizio. Segue la visita al tempio di Flora con il giardino e la grotta che conduce sulla riva del lago. L'acqua è piuttosto torbida e non mancano macchie d'umidità nel tempio greco, scrostature sulla pagoda e scheggiature sull'obelisco egizio. «Il parco è imponente - spiega un turista romano - ma molti sentieri dovrebbero essere tenuti meglio e il percorso è troppo impegnativo per anziani e passeggini.

Sarebbe bello riportare in vita anche i giochi d'acqua che, da quanto ho letto, erano molto famosi nel passato». Il personale Aster si alterna a periti che fanno numerosi rilievi, come se si trattasse di un paziente alle prese con una lunga convalescenza. E i fatti lo confermano.

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