Il virus che confonde i meriti e le colpe

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Il messaggio presidenziale che celebra la ricorrenza del 2 giugno deve essere improntato - per una regola istituzionale non scritta ma ben radicata - a ottimismo e a fiducia nell’avvenire. Non si tratta di vuota retorica, anche se qualche volta la si è avvertita nelle parole che venivano dal Quirinale: si tratta di spronare alla speranza un Paese che, quando sia davvero messo alla prova, rivela straordinarie doti di resistenza e di sopravvivenza, ma che ha una eccessiva propensione allo sconforto declamatorio. In scia alla tradizione Ciampi ha affermato che l’Italia andrà avanti, ha fatto affidamento sui giovani. Ha poi spronato tutti a scrollarsi di dosso un torpore «largamente diffuso», a rifuggire dalle «sottili dispute».
Benissimo. In questo momento, come non mai, l’Italia ha bisogno d’essere rincuorata, di sentirsi ricordare una semplice verità: ossia che il 2 giugno di cinquantanove anni or sono questa Repubblica era vinta, devastata, povera. La lasciavano gli emigranti in cerca di fortuna. Oggi, con tutti i suoi difetti, questa Repubblica appartiene al ristretto club di ricchi del pianeta, e attira folle di diseredati anch’essi - come gli italiani un tempo - in cerca di fortuna. Dire queste cose non è magari troppo di moda, nel coro delle lamentazioni e degli annunci apocalittici. Ma tacerle è ipocrita. Senza nasconderci, tuttavia, che nell’Italia del 1946 si credeva nel futuro più di quanto ci si creda adesso. Bravo Ciampi, dunque, per l’esortazione - scontata fin che volete ma utile - rivolta ai troppi italiani che si crogiolano nei loro piagnistei: e indirettamente rivolta a una classe politica che, in mancanza d’un acceso dibattito sul sesso degli angeli, s’accontenta di quello sugli embrioni.
Tuttavia un passaggio importante dell’appello di Ciampi non mi è parso del tutto convincente. «Affrontiamo confrontandoci - dice - i problemi veri del Paese con la volontà di arrivare a soluzioni condivise». Questa delle soluzioni condivise è una parola d’ordine che sentiamo ripetere a ogni piè sospinto. Ma in definitiva cosa significa? Che in una democrazia moderna basata sul bipolarismo, e pertanto sull’alternanza degli schieramenti al potere, ogni deliberazione dev’essere bipartisan.
Bisogna secondo me distinguere. Le riforme che incidono sulle massime istituzioni della Repubblica, e che garantiscono la convivenza civile, devono preferibilmente essere condivise. Ciampi ha definito «lungimirante e saggia» la Costituzione, frutto di compromessi tra le spinte democristiane e le spinte socialcomuniste, con apporti di spirito liberale. Il frutto di quelle intese, la Magna Charta della Repubblica, denuncia i condizionamenti che ebbe alla nascita, insieme al peso degli anni. Una Costituzione può tuttavia essere un incontro di ideologie diverse.
Ma le decisioni quotidiane in politica e in economia sono soggette, secondo me, alla dialettica maggioranza-minoranza, la maggioranza decide e la minoranza critica, e se la maggioranza avrà sbagliato i cittadini potranno punirla alle urne. La ricerca della formula condivisa è lenta, tormentosa, ossia il contrario di ciò che richiede una società in rapida evoluzione. Porta all’ambiguità o al lamentato torpore. Produce ibridi che cumulano i difetti, non i pregi di due diverse soluzioni. Le abbiamo avute le stagioni delle soluzioni condivise: con il consociativismo, con la concertazione e con altre trovate che tutte sottintendevano un elemento devastante: se mancava l’accordo non si faceva niente. E l’accordo si trovava con estrema facilità sui provvedimenti peggiori, quelli di spesa facile. Così, condividendo - governo, opposizione e sindacati insieme - ci siamo guadagnato il debito pubblico che abbiamo e l’amministrazione che abbiamo.

Penso sia meglio che i provvedimenti abbiano, più e meglio degli embrioni, una paternità chiara, così che si possa sapere su chi ricadono i meriti o le colpe. Ho la persuasione che la democrazia non ne soffre, anzi se ne giova.Mario Cervi

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