Si sente senza dubbio più vicino alla definizione di Proust («una gran parte di quello che i medici sanno è insegnato loro dai malati») che a quella di Bernanos («il medico è il curato dei repubblicani»). Andrea Vitali, classe 1956, medico e scrittore di successo, sembra infatti incarnare quasi naturalmente la descrizione che l’autore della Recherche fa dei discepoli di Ippocrate. Ovviamente la sua cultura scientifica e la sua capacità professionale, Vitali se l’è conquistati sui banchi dell’ateneo milanese. Dai suoi pazienti (buona parte della popolazione del comune di Bellano, nel lecchese) ha imparato invece quella «varia umanità» che esce prepotente dalle pagine dei suoi romanzi. Dietro il successo di titoli come Una finestra vista lago, La figlia del podestà e l’ultimo Almeno il cappello (tutti pubblicati da Garzanti) c’è, insomma, una profonda attenzione per tutto ciò che regala la provincia: una sorta di «piccolo mondo antico» dove si possono vivere, come ebbe a scrivere una volta Giovanni Pacchiano, «una girandola di passioni, a posteriori insignificante».
I suoi pazienti sono anche suoi lettori?
«Molti sì. Diciamo che in paese sono tanti quelli che hanno letto e continuano a leggere i miei romanzi. A volte vengono in ambulatorio non per parlare dei loro acciacchi, ma semplicemente per dirmi che hanno scoperto una persona reale dietro un personaggio».
È una soddisfazione non da poco, per lo scrittore ovviamente e non per il medico.
«Già i critici dicono che i miei romanzi restituiscono dei personaggi assolutamente autentici. I miei compaesani vanno ben oltre. Li identificano con nome e cognome. Anche se in realtà i miei modelli sono molto più lontani nel tempo».
Gran parte delle sue storie sono ambientate negli anni Trenta e Quaranta. I suoi modelli vengono da lì?
«Se sono diventato scrittore lo devo soprattutto alla mia famiglia. Che usava radunarsi attorno a un tavolo nelle occasioni di festa e raccontare aneddoti e fatti legati ai più strambi personaggi da loro conosciuti. Sono storie che non ho dimenticato e che sono riuscito - almeno in parte - a riportare sulla carta».
Suo padre però non voleva fare di lei uno scrittore...
«Più che altro non voleva che diventassi giornalista. E quando si ha 18 anni si pensa che la professione naturale per chi ama scrivere sia quella del cronista. Però, suo malgrado, mi ha aiutato, e non poco, a essere qui ora a parlare dei miei romanzi».
E in che modo?
«Innanzitutto con gli aneddoti che raccontava. Il mio primo romanzo (Il procuratore pubblicato nel 1990, ndr), ad esempio, viene proprio da una storia raccontatami da lui. E poi grazie a una monumentale macchina per scrivere Everest che mi passò quando nel suo ufficio in Comune dovevano sbarazzarsi di vecchi “cimeli”».
Ha iniziato subito con i bozzetti di provincia?
«All’inizio, in verità, scrivevo tantissime lettere. Prima lettere d’amore alle mie potenziali fidanzatine. Poi a mio fratello, che per due anni ha vissuto negli Stati Uniti. Mi piaceva molto, e mi piace tuttora, scrivere lettere. Non e-mail, beninteso, ma lettere di carta da spedire per posta. A mio fratello ne avrò mandate 3 a settimana per due anni».
Cronaca pedante delle vicende familiari?
«Non solo. Gli raccontavo tutto quanto accadeva nel nostro piccolo centro di provincia. Poco tempo fa le ha tirate fuori. Si tratta di un bel mucchio di pagine. Le ho rilette. E mi hanno fatto uno strano effetto».
Ecco il nuovo libro: «Cronache di provincia».
«In effetti si potrebbero pubblicare proprio con questo titolo e chissà che prima o poi non lo faccia».
A proposito di pubblicazioni, il suo editore l’ha messa in corsa per lo Strega. Non ha paura di un premio «assediato» dalle polemiche?
«Tra me e i responsabili di Garzanti c’è piena sintonia. Loro mi hanno detto: “Facciamo gareggiare il libro ma senza pressioni”. Politica che condivido in pieno. Il presidente dello Strega, Tullio De Mauro, ha tutta la mia fiducia. È persona seria che ama soprattutto la cultura letteraria. E i libri, nei premi, dovrebbero parlare da soli».
Sembra il discorso del vincitore.
«Non mi cambierebbe la vita vincere lo Strega. E sarei felice lo stesso anche perdendo. I premi mi piacciono perché amo la competizione. Due anni fa ero al Ninfeo di Villa Giulia come semplice spettatore e trovai lo spoglio in diretta delle schede molto eccitante».
Ammaniti, però, non ha avuto rivali in quell’edizione (vinse con Come Dio comanda, Mondadori, ndr).
«È stato lo stesso molto intrigante, sia lo spoglio, sia l’atmosfera che si respirava. Così come mi sono emozionato nell’entrare nella cinquina del Campiello».
Pochi giorni fa è scomparso Nico Orengo, uno dei due «nomi» a presentarla per lo Strega.
«Ci siamo conosciuti tanti anni fa, ovviamente per lettera. Mi erano piaciuti i suoi romanzi Dogana d’amore e Le rose di Evita. Gli feci per lettera i miei complimenti e da allora è nata una bella amicizia fatta soprattutto di missive».
Ci stavamo dimenticando delle polemiche sullo Strega...
«Non ne so niente. Dove vivo io non sono ancora arrivate. Di solito, cose come queste arrivano da noi con sei mesi di ritardo. Magari se ne parlerà a novembre».
Dalle vostre parti, però, c’è anche l’avanguardia di Hollywood. Ben rappresentata da George Clooney.
«Intanto abita dall’altra parte del lago. Il lato dei ricchi. In effetti la nostra vita, da quando c’è lui, è cambiata. E non necessariamente in peggio. Ci sono cose che fanno sorridere. E, in fondo, sorridere fa sempre bene».
Parola di medico.
«Se pensa che ci sono tanti che arrivano col traghetto davanti alla sua villa solo per vedere se si affaccia! Manco fosse il papa! E poi tutti dicono che gli piace girare per le nostre strade in motocicletta. Salvo dimenticarsi il dettaglio che si fa seguire da quattro guardie del corpo anche loro sulle due ruote!».
Tipico bozzetto di vita di provincia.
«Ma se si riporta la situazione agli anni Quaranta... e si sostituisce il volto di Clooney a quello di un’attrice di varietà... Ecco già in nuce un lavoro che potrei sviluppare».
Spesso lei ha detto che il suo livre du chevet è La stanza del vescovo. Non si è stancato di questo confronto con Piero Chiara?
«Per me Chiara è stata una salvezza.
Fuori il nome.
«Giovannino Guareschi. I suoi testi sono piccoli capolavori».
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