Controcultura

Una «Voragine» è pronta a inghiottirci tutti

Fabrizio Ottaviani

Seguendo le vicende del protagonista di Voragine (Il Saggiatore, pagg. 193, euro 19), l'opera prima di Andrea Esposito che ha rischiato di vincere il premio Calvino, non sappiamo se questo, nonostante tutto, è ancora un uomo. Giovanni vive con il padre e il fratello in una baracca posta a ridosso di un antico acquedotto, in una periferia romana rispetto alla quale le terre desolate descritte da Pasolini sembrano la Brianza. Costretto a recarsi quotidianamente presso uno sfasciacarrozze dove il genitore, un artista folle, pesca i rottami che gli servono a montare le sue sculture, Giovanni assiste prima alla morte del fratello, lasciato ad agonizzare senza cure mediche, e poi a quella del padre, travolto dal suo stesso delirio. La mente di queste figure, a loro modo titaniche, è ridotta a puro istinto di sopravvivenza, le parole e le azioni sono così scarnificate da traghettare lo stile del racconto, che all'inizio appare realistico e a tratti minimale, verso le abbaglianti scene che caratterizzano alcune opere legate all'espressionismo tedesco, per esempio il Woyzeck di Büchner o i desolati versi di Trakl. Tedesca è anche l'architettura del romanzo, che rimanda al cosiddetto Stationendrama, cioè ad un percorso verso la dissoluzione scandito, in questo caso, dai titoli dei capitoli: Prima arriva la solitudine, Secondo arriva il freddo, Terza arriva la fame. Quarta arriva la malattia... Questa essenzialità, coniugata ad una violenza elementare onnipresente, non potrebbe essere giudicata verosimile se non fosse illuminata dai lampi filosofici del padre: «Un uomo oscilla sempre tra bestia e cosa. Quando mangia è una bestia e quando costruisce è una cosa. La bestia vuole solo durare...».

A cosa allude il tono sentenzioso, oracolare di simili riflessioni? Un'ipotesi si fa largo nella seconda parte del romanzo, allorché Giovanni attraversa una campagna costellata da sobborghi distrutti da una sorta di catastrofe atomica: che il primitivismo esistenziale dei personaggi non sia uno stato iniziale di indigenza al quale sottrarsi con azioni che potremmo definire «borghesi» o «di civilizzazione», ma una dimensione necessaria, terminale, che riflette lo spirito del tempo.

La «voragine», insomma, non è un'evenienza contingente prodotta dalla malasorte o dalle penose condizioni sociali ed economiche dei personaggi, ma il simbolo di una profezia apocalittica che riguarda l'intera umanità.

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