Cultura e Spettacoli

Walter Siti e le valenze dei mediocri

Ad un certo punto di questo ottimo libro (Troppi Paradisi, Einaudi, pagg. 425, euro 18,50) - capace di tenere desta l’attenzione del lettore riuscendo anche a divertirlo, malgrado la desolazione profonda che ne sottende l’ironia e che l’Autore gabella per mediocrità - s’incontra una sentenza spietata: «Intendo per mediocrità soprattutto l’impermeabilità alla disperazione». Ma non sarebbe più giusto, in questo caso, dire: «Il superamento della disperazione mediante il sistematico compromesso con la propria coscienza?».
Con la diligenza un po’ maniacale che gli è propria, Walter Siti suddivide la sua «mediocrità» in tre valenze fondamentali: quella caratteriale, cioè la continua scelta della strada più facile; la sanitaria, cioè l’attenzione alla propria salute, che malgrado acciacchi sopportabili non lo trasformi in lamentoso valetudinario e, unica concessione, una qualche indulgenza per una moderata e successiva adiposità; la finanziaria: una condizione economica tranquilla nella sua moderatezza, da «fascia alta dei morti di fame».
Non ricordo in quale pagina, Siti afferma di aver iniziato questo libro con un «plagio». Non so dire cosa abbia inteso con tale confessione; a me sembra di aver scoperto invece suggestioni evidenti, e addirittura citazioni di autori o personaggi della letteratura antica e moderna: per esempio, Orazio Flacco, con il suo esplicito ideale della mediocritas, della serenità d’animo, e persino d’una accettabile pinguedine («porcellino del gregge di Epicuro»), ma anche «credi quanto meno puoi al futuro», laddove Siti scrive: «Il futuro non m’interessa»; e Lucrezio, con il famoso incipit del II canto del suo De rerum natura («È dolce quando i venti sconvolgono le distese del vasto mare,/ guardare da terra il grande travaglio di altri»): e Siti riecheggia: «La televisione è rassicurante anche perché le sciagure che vedi non capitano a te»; ma forse anche il Cicikov gogoliano con la sua fluida personalità capace di scivolare dovunque senza sforzo; o il Leopold Bloom joyciano che «si sente felice dopo una facile e abbondante defecazione», situazione che Siti cita riprendendola alla lettera.
Ma in tutto questo amaro e divertito «trattato sulla tolleranza» torna a insinuarsi e ad esplodere la realtà abrasiva del dilagare dell’altrui stupidità (quella televisiva soprattutto, largamente documentata per personale frequentazione, anche pubblicando nomi che «contavano» - quelli che contano evita di citarli o li indica prudentemente con puntini, solo nomi di battesimo, o soprannomi) e soprattutto del tormento che fa saltare tutti i dispositivi di sicurezza così accuratamente confezionati sulla pagina e nella vita: quello dell’amore (omosessuale o etero non è qui importante), amore-passione e uragano dei sensi bloccati dall’impotenza, vero disturbo mentale derivato edipicamente dalla sovrapposizione angosciante dell’immagine dell’organo sessuale materno sull’oggetto del desiderio, cioè cunnus della partner o podex del partner, che si offrono alla penetrazione.
È forse questa tortura che frantuma la difesa di una tranquilla «mediocrità» e induce l’Autore alla perversione più abietta, quella di inserire inutilmente nel testo l’atroce brano del romanzo Il ponte sulla Drina di Ivo Andric sulla dettagliata descrizione dell’impalamento di un contadino da parte degli zingari.

Ma per fortuna Siti riprende il controllo di sé, e ci offre le bellissime pagine conclusive del romanzo, quelle dell’amore appassionato e fantasiosamente disposto a qualsiasi crimine contro un suo rivale o per procurarsi il danaro di cui è ingordo il suo giovane amante, il delizioso anche se palestrato ragazzo di periferia, quel Marcello di cui l’Autore riproduce con straordinaria abilità linguistica (superiore a quella di Pasolini) il linguaggio, in una mimesi che riscatta gli allentamenti della creazione artistica in alcuni altri precedenti dialoghi, sempre eleganti ma inconsuetamente banali.

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