William Gibson: "Virtuale e reale non si disinguono più"

Intervista con lo scrittore di fantascienza che, osservando i videogames anni Ottanta, ha previsto il cyberspazio, i crimini on line e il digitale. "Mi aspettavo che la rete diventasse potente, ma non pensavo a una tale ubiquità"

William Gibson: "Virtuale e reale 
non si disinguono più"

Probabilmente se nel 1982, William Gibson non avesse coniato il termine cyberspazio all’interno delle storie contenute nel suo La notte che bruciammo Chrome, l’idea fondativa di Internet forse non sarebbe mai stata sviluppata dagli ingegneri del mondo del computer. E quasi sicuramente non sarebbero poi stati creati i caschi per accedere alla realtà virtuale e nemmeno sarebbero cresciute realtà avveniristiche di gioco come quelle della Playstation o di «Secondlife». Eppure l’idea primigenia di quella nuova tecnologia e di un futuro possibile dove sarebbe stata usata sia in maniera positiva che in maniera negativa era nata in William Gibson dalla semplice osservazione della realtà. Si era infatti accorto che i ragazzini degli anni ’80 che stavano attaccati per ore e ore ai videogame delle sale giochi erano già proiettati all’interno di un loro speciale cyberspazio, una realtà virtuale che diventava per loro ogni giorno sempre più reale.

In romanzi successivi come Neuromante, Giù nel cyberspazio, Monna Lisa Cyberpunk e Luce virtuale William Gibson ha quindi sviluppato la sua idea, mostrando nelle sue storie un futuro in cui i criminali lottano fra di loro per il possesso di nuove droghe e tecnologie e si servono di un territorio speciale come il cyberspazio per poter agire come moderni pirati telematici. La pubblicazione del recente romanzo Guerreros (Mondadori) è l’occasione per incontrare lo scrittore di origini statunitensi ma naturalizzato canadese.

L’abbiamo così avvicinato a Roma dove sarà ospite questa sera alle 21 del festival internazionale di Roma «Letterature», alla Basilica di Massenzio al Foro romano. La manifestazione, promossa dal Comune di Roma, ideata e diretta da Maria Ida Gaeta, lo ha visto affiancato allo scrittore texano Joe R. Lansdale. «Scrivere di fantascienza è sempre stato per me un modo per esplorare in maniera lucida il presente - spiega Gibson -. In questo senso mi sento un po’ un naturalista, uno studioso abituato a descrivere e spiegare tutto quello che lo circonda. Sono un naturalista che per poter raccontare la società contemporanea non può però fare a meno di una cassetta degli attrezzi speciale, capace di contenere tutte le suggestioni della fantascienza del ventesimo secolo».

A cosa si è ispirato per creare il suo cyberspazio?
«Due cose che mi hanno letteralmente suggerito che una realtà del genere poteva esistere: la diffusione del primi personal computer e soprattutto l’avere osservato i ragazzini che giocavano con i primi videogame. Mi ha incuriosito vedere come questi giovani stavano ore e ore incollati agli schermi e consideravano quel momento, sì, un momento di gioco ed evasione ma soprattutto mi davano l’impressione di voler in qualche modo entrare dall’altra parte dello schermo. I ragazzini volevano in qualche modo far parte della rete, entrare nei videogiochi. Erano consapevoli che quella era una sorta di nuova realtà».

Si sarebbe aspettato che Internet avrebbe assunto l'aspetto che ha oggi?
«Mi aspettavo che la Rete potesse diventare potente come strumento ma ero incapace di poter immaginare la sua assoluta ubiquità».

Che tipo di utente è lei della Rete?
«In realtà, ho aspettato un po’ prima di connettermi e sino a dodici anni fa non avevo né Internet né usavo un’e-mail personale. Adesso ovviamente non riesco più a farne a meno, tanto che spesso mi risulta difficile distinguere i momenti in cui sono connesso da quelli in cui sono disconnesso. La cosa divertente è che fra qualche anno i nostri nipoti rideranno pensando al fatto che nella nostra epoca noi distinguevamo ancora il digitale e il virtuale dal reale. Per loro non esisterà più la differenza».

Quali sono gli aspetti che ama e quelli che odia di più del web?
«Vado letteralmente in bestia quando il server va in down e invece non posso che ammettere che amo la natura postgeografica di Internet, la sua mancanza di fissità locale e temporale. Con Internet puoi viaggiare sia nel tempo che nello spazio, puoi vistare luoghi fisici e vederli con le webcam e contemporaneamente consultare archivi storici.

Nelle sue storie l’elemento noir e quello fantascientifico vanno sempre a braccetto, perché ha questa predilezione per sottolineare spesso gli usi criminali della tecnologia?
«Questo fa sempre parte del mio naturalismo letterario. Sarebbe irrealistico dipingere un mondo dove la gente fa solo cose belle con la tecnologia, sarebbe difficile raccontare una bella storia secondo quei canoni. Mi sento in questo senso molto vicino a un narratore come Dashiell Hammett per la sua modalità di ideazione di situazioni dark e poliziesche. Molti spesso mi accostano a Raymond Chandler ma devo confessarlo il mio modello è sempre stato Hammett».

Come è nato il suo recente romanzo Guerreros?
«Ho avuto lo stesso approccio a questa storia che avevo avuto nel passato con i miei precedenti romanzi. Volevo scrivere un romanzo di fantascienza che parlasse dell’epoca che stiamo vivendo e per farlo ho usato gli stessi strumenti che avevo usato in passato. In particolare, inserendo un personaggio come l’ex rockstar Hollys Henry volevo toccare il tema della celebrità. Cosa può succedere a un individuo normale quando raggiunge l’apice del successo? Quanto possono cambiare lui e il mondo che lo circonda? Quanto perdere all’improvviso la celebrità potrà metterlo in crisi e costringerlo a reinventare la propria esistenza?».

Al centro della storia di Guerreros c’è una misteriosa rivista che si chiama Node. Come pensa che si svilupperanno le riviste nel futuro?
«Sto aspettando nervosamente l’invenzione della carta elettronica. Io continuo a darmi da fare, cerco di svecchiare la scrittura ma mi trovo ancora a lavorare per il massmedia più vecchio del mondo e che sino ad ora non ha subito sostanziali cambiamenti. Lo so che quando avverrà il cambiamento dovrò cambiare il mio business model, mi troverò a dover rivedere tutto il mio modus operandi. Ma posso assicurarvi che non vedo l’ora che la rivoluzione avvenga».

Nel suo ultimo romanzo parla spesso dell’arte del futuro e delle sue nuove forme...
«Ho dovuto distaccarmi molto dal concetto classico di arte, perché era troppo tradizionalista. Per creare un’arte virtuale che io ho denominato "locativa" ho dovuto letteralmente inventarmela. Purtroppo l’arte contemporanea oggi è diventata un vero e proprio business e così ha perso l’autobus della creatività. Non è più connessa con la moderna tecnologia che l’ha letteralmente scavalcata e la stessa pop culture tende a farsi chiudere nelle grandi gallerie per essere osservata piuttosto che restare nei luoghi dove è nata e ha la sua linfa vitale.

Una delle sue frasi più celebri

è: «Il futuro è già qui, è solo mal distribuito!». Lo pensa ancora?
«Forse qualche passo avanti lo abbiamo fatto nella distribuzione, ma direi che dobbiamo ancora pedalare per tenerci al passo coi tempi».

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