nostro inviato a Brembate di Sopra
«Che Allah mi perdoni, ma non l'ho uccisa io». La nebbia mefistofelica che avvolgeva Yara, la bambina che sognava di volteggiare come una farfalla, si è diradata così, all'improvviso, ascoltando questa frase sibilata al telefono da un giovane marocchino in fuga.
«Che Allah mi perdoni, ma non l'ho uccisa io», una manciata di parole che pesa, come solo un presagio di morte, può pesare sul cuore di una famiglia chiusa nell'angoscia da dieci giorni.
Già, ma se non l'ha uccisa lui, il marocchino che lavorava come muratore nel cantiere dove il fiuto dei cani ha continuato sempre e sistematicamente a condurre, chi è stato ad uccidere Yara Gambirasio? E dove è il suo cadavere? In quale, pozzo o cisterna, o casolare o campo è stata buttata? In quale dei cento luoghi impossibili che anche adesso, mentre scriviamo queste righe, nel buio e sotto la neve volontari, vigili del fuoco e guardie forestali stanno setacciando, come hanno fatto, incessantemente, da quando Yara, la sera del 26 novembre, è stata inghiottita dal mistero appena uscita dal centro sportivo di Brembate di Sopra.
Fermato, sabato in serata, con l'accusa di omicidio volontario e sequestro di persona, dopo il rocambolesco «arrembaggio» del traghetto Berkane, il muratore di 22 anni, ufficialmente residente a Montebelluna, era stato subito portato nella caserma del Comando provinciale dei carabinieri di Bergamo per rispondere alle domande del pm Letizia Ruggeri. Ma quale è stato il suo vero ruolo in questa drammatica vicenda? Sembra fuor di dubbio che abbia teso a Yara, con un altro complice o addirittura altri due, la micidiale trappola in cui è stata trascinata. Ma poi, dopo la probabile violenza consumata sull'inerme ragazzina, che cosa è accaduto realmente? Come e dove è finita quest'altra storia schifosa? Se è vero, come sembra che a questo punto sia vero, che il marocchino è uno dei due uomini che, la sera della scomparsa di Yara Gambirasio furono visti parlare con la ragazzina attorno alle 18,45, accanto a una Citroen rossa con le quattro luci di stazionamento accese. Come ha raccontato agli investigatori e persino ai giornalisti il giovane vicino di casa di Yara, Enrico Tironi nella sua controversa testimonianza. Capace nella sua scarsa loquacità di negare anche l'evidenza il colonnello Roberto Tortorella, comandante provinciale dei carabinieri (che ieri di buon’ora si è recato nell’abitazione dei Gambirasio per comunicare loro gli ultimi sviluppi dell'inchiesta) si limita a parlare di «fase cruciale» delle indagini. E il fatto che in serata gli investigatori siano arrivati al punto di invitare nuovamente alla prudenza e di parlare di «giustificazioni» fornite dal marocchino che si stanno tenendo in «debito conto» fa pensare solo che si sta cercando ancora il complice-assassino di questo muratore extracomunitario che lavorava fino a qualche giorno fa nel cantiere dell'ex Sobea, dove è in costruzione un centro commerciale e dove le tracce della tredicenne sembrano sparire nel nulla perché è là, è sempre stato là, che il fiuto dei cani-segugio ha sempre condotto gli inquirenti. Anche se, purtroppo, oramai è certo che ci sia solo un cadavere da cercare, è anche vero dunque che, al momento, da quella strana preghiera rivolta al suo Dio, che è stata intercettata dai carabinieri mentre il marocchino lasciava in fretta e furia Brembate, uscirebbe l'esile appiglio cui il fermato si aggrappa, quel «non sono stato io» che anche ieri ha ripetuto al pm. Proprio l’assenza dal lavoro subito dopo la sparizione però ha fatto scattare i primi sospetti.
La verità forse la sa soltanto un'altra persona. L'uomo che, dopo l'ultimo sms, ricevuto alle 18.44, da Yara, la sera del 26 novembre, le ha spento il cellulare. Condannandola a morte.
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