Che cosa ci si può ragionevolmente attendere da una elezione in un Paese che ha il 100.000% di inflazione, l'85% di disoccupati, dove la vita media degli abitanti è precipitata a 36 anni e scuole e ospedali hanno quasi cessato di funzionare? Che i cittadini diano il benservito al presidente e al suo governo, che li hanno portati alla rovina. In Zimbabwe, dove si vota oggi, non è così. È vero che, secondo l'unico sondaggio indipendente, Robert Mugabe, l'ultimo presidente marxista dell'Africa nera, dovrebbe prendere solo il 20% dei voti, contro il 28% del capo del Movimento democratico Morgan Tsvangirai e il 9% di Simba Makoni, ex ministro delle Finanze che ha rotto con il regime. Ma nessuno crede che l'ottantaquattrenne presidente, al potere da ormai 28 anni, sia disposto a uscire di scena, tanto che il New York Times ha titolato la sua corrispondenza da Harare: «Molti si chiedono non se, ma come Mugabe truccherà le elezioni». Lo ha già fatto in passato, è pronto a farlo di nuovo, e gli strumenti per il grande broglio sono già pronti: ha fatto stampare 9 milioni di schede per soli 6 milioni di potenziali elettori, ha ridotto il numero delle sezioni nelle città e nelle province in cui l'opposizione è più forte, ha escluso la presenza di osservatori indipendenti, chiuso i collegamenti via satellite ai principali media internazionali e reso impossibile i controllo sulla commissione elettorale, capeggiata da un fedelissimo.
Le liste elettorali non sono state aggiornate da anni, ed è scontato che tutti i morti voteranno per il presidente in carica. Da settimane, nel Paese c'è un clima di aperta intimidazione nei confronti dei due candidati dell'opposizione, coperti da insulti dai media asserviti a Mugabe e ostacolati nella loro campagna. Cibo e carburante vengono distribuiti soltanto a chi si impegna a votare per il presidente. Per buona misura, sia il comandante delle forze armate, sia il capo della polizia hanno dichiarato papale papale che non tollereranno che un «agente dell'imperialismo» sconfigga il grande eroe della guerra di liberazione e che, in caso di vittoria dell'opposizione, organizzeranno un colpo di Stato. Da ieri, comunque le Forze Armate sono in «stato di massima allerta».
Inutile dire che né Tsvangirai, né Makoni sono «agenti dell'imperialismo», ma solo i leader di un popolo che, nell'arco di una generazione, ha visto il suo Paese trasformarsi da granaio dell'Africa nera, quale era quando si chiamava ancora Rhodesia, in un inferno da cui tre milioni di abitanti su 15 sono fuggiti e un terzo dei superstiti sopravvive soltanto grazie agli aiuti internazionali. Tsvangirai, un ex sindacalista, aveva già sfidato Mugabe nelle presidenziali del 2002, prendendo il 42% dei voti, e negli anni successivi è stato arrestato, processato per tradimento e quasi bastonato a morte: gode di un vasto sostegno nel proletariato urbano (nonché in quel poco che resta della popolazione bianca, dopo che Mugabe ha espropriato 4.000 delle 4.500 fattorie che costituivano la spina dorsale dell'economia) ma ha commesso molti errori ed è contestato da fazioni del suo stesso partito. Makoni, 58 anni, laurea in Gran Bretagna, è l'uomo nuovo che, come ex esponente di spicco del partito di maggioranza, potrebbe coagulare nel segreto dell'urna lo scontento e le preoccupazioni anche di altri esponenti del regime e dei rispettivi clan.
Nessuno dei tre candidati dovrebbe ottenere oggi la maggioranza assoluta, per cui, entro tre settimane, si andrà al ballottaggio. Saranno tre settimane di fuoco, in cui potrà succedere di tutto.
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