Cultura e Spettacoli

La zingara dalla voce nera Una leggenda che ha 35 anni

In «Graffi in paradiso» la biografia ragionata della rockstar texana

Cesare G. Romana

Diceva: «La scomparsa di Hendrix è la mia assicurazione sulla vita, non è possibile che due rockstar muoiano nello stesso anno». Invece se ne andò il 3 ottobre 1970, a quindici giorni dalla morte di Jimi, uccisa da un’overdose e da sogni più piccoli del suo talento, e più grandi di lei.
È così che una ragazza geniale e fragile, insicura degli altri e soprattutto di sé, esce di scena: stroncata da speranze troppo normali per realizzarsi, in questo mondo capovolto. Janis Joplin, trentacinque anni fa, morì di tutto questo e oggi ce lo attesta un libro bellissimo: Graffi in paradiso, editrice Arcana, autrice Alice Echols, una scrittrice che guarda al mito Joplin, e al suo sgretolarsi, con il rigore dello storico, l’amore dell’orfano e la lucidità del sociologo, abituato a incastonare gli eventi, anche i più privati, nel contesto di un’epoca e d’una civiltà.
Nella fattispecie, la civiltà è quella «maledetta» del blues, musica del diavolo, e del rock suo figlio. Dove l’antinomia tra razionalità e irrazionalità - e solitudine e fama, disamore epocale e bisogno primordiale d’amore - trova la sua smarrita composizione sul terreno impalpabile, direbbe Hanna Arendt, della «razionalità dell’irrazionale». Su quel terreno la vicenda di Janis - e di Jimi, e Morrison, e Cobain, e di tutti i comediens et martyrs del rock - nacque, arse e si consumò. Alice Echols lo spiega, ben oltre gli esclamativi dell’agiografia, sulla scia di decine d’interviste, e d’una riflessione che muove dai fatti per esplorarne i moventi. Ché non basta di certo, per comprendere il «caso Joplin» nella sua tormentosa drammaturgia, una notarile ricognizione di eventi: iniziata nel ’43, quando Janis nacque a Port Arthur, centro texano di morigerati costumi e di pochi sogni, dominata da una borghesia petrolifera puritana e gretta.
Per l’indole appassionata di Janis, il blues di Leadbelly e Bessie Smith è l’unica evasione possibile, e con essa il fascino acre e carnale della musica nera. L’approdo, poi, a San Francisco svela alla futura rockstar orizzonti nuovi d’utopia e trasgressione. Il californian dream, versione solare dell’american dream, è troppo alato per non incartarsi, alla lunga, su se stesso: e Janis Joplin ne uscirà stritolata. Anche per le contraddizioni che corrono tra le sue aspirazioni e la sua origine piccolo-borghese: da un lato accarezza, sulla scia di Kerouac e della beat generation, il miraggio di un’esistenza on the road, zingaresca e anarchica, dall’altro si chiede, da fragile ragazza texana, «perché non posso essere una di quelle che sognano una casa con lo steccato bianco».
Il successo non risolve il dissidio, semmai lo esaspera. Ha ragione Bob Dylan, nel distico posto ad epigrafe del libro, in cui il grande poeta ammonisce: «Se non credi che ci sia un prezzo/per questo dolce paradiso/ricordami di mostrarti le cicatrici». Per Janis, questo significa la perpetua inquietudine d’ogni rockstar: la popolarità che sconfina nella solitudine, la brama d’amore sfarinata in amorazzi casuali, l’alcol e la droga come vana catarsi, o distruttiva rivalsa. La consapevolezza, infine, che «ogni sera, sul palco, faccio l’amore con venticinquemila persone, poi me ne torno a casa, da sola».
«Disprezzare il conformismo pur desiderando d’adeguarvisi era sempre stata la specialità di Janis», scrive Alice Echols, in una frase riassumendo l’ascesa e la dannazione, l’intreccio di agra lepidezza e di vocazione tragica che segnano non solo la vita della Joplin, ma il suo canzoniere e il suo tragitto d’artista. Un contrasto già avvertibile nella sua voce - purissima e sopranile, ma capace di rauche, sulfuree accensioni - e ancor più in pagine come A woman left lonely, Pearl, I got dem al’Kozmic blues again mama. O ancora nel sarcasmo anticonsumistico di Mercedes Benz - «Signore, compramene una/ tutti i miei amici guidano delle Porsche/devo rimediare» - come nella scettica, sconsolata Me & Bobby McGee: «Libertà è solo una parola in più/per dire che non hai niente da perdere».
Era in fondo inevitabile che, in una livida serata ottobrina, lo sfumare di un incontro erotico a tre ponesse Janis, per l’ennesima volta, al cospetto del suo fallimento.

Rifugiarsi nell’eroina non l’aiutò: sola nel letto, la siringa vuota nel comodino, alla diva non restò che abbandonarsi alla quiete senza scampo della morte, rifluendo nel nulla al quale, in fondo, tendeva.

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