Politica

Lo zingaro bilaureato contro i campi rom

Al contrario del buon selvaggio descritto da Rousseau, che viene al mondo innocente ma sul finire della fanciullezza è già bell’e guastato per colpa della società corrotta, il professor Santino Spinelli è nato ladruncolo e a 7 anni ha smesso per sempre di rubare. A imperitura dimostrazione della fallacia di certe teorie pedagogiche, ha anche conseguito due lauree, la prima nel 1998 all’Università di Bologna in lingue e letterature straniere e la seconda pochi giorni fa al Dams della stessa città in musicologia.
Giunto all’età di 41 anni, Spinelli avrebbe dovuto, nella più rosea delle ipotesi, essere dedito all’accattonaggio o ai furti negli appartamenti; nella peggiore, al racket della prostituzione o alle rapine nelle ville. Invece è l’unico zingaro d’Europa, e forse al mondo, titolare di cattedra in un ateneo: insegna lingua e cultura romaní alla facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Trieste. È anche scrittore, poeta e musicista: col nome d’arte Alexian ha composto e interpretato centinaia di canzoni e ha inciso cinque Lp e tre Cd.
Zingaro è un termine dispregiativo che non si deve usare mai al cospetto del professor Spinelli: «Io sono rom. Con sinti, kale, manouches e romanichals, tutti etnonimi che significano essenzialmente “uomo”, i rom rappresentano uno dei cinque gruppi principali che formano il variegato mondo romanó», rivendica orgoglioso. Vietato anche dargli del nomade: «Nessuno è vagabondo per cultura. Lo è solo per necessità». Lui abita con moglie e tre figli in una normalissima casa a Lanciano (Chieti) e il suo nomadismo è dettato da lezioni, convegni e concerti in giro per l’Europa. In totale ogni anno non meno di 200.000 chilometri con la sola auto, più i viaggi in treno e in aereo.
I suoi avi sì che lo erano, nomadi. «Arrivarono in Italia intorno al 1300 dalle coste albanesi e greche per sfuggire alle persecuzioni dell’Impero ottomano. Stanziatisi nel Salernitano, probabilmente presero il cognome dai duchi Spinelli, cui avevano offerto i loro servigi. Il mio primo antenato nacque a Vairano Patenora, provincia di Caserta. Nel 1500 la sola Campania contava già 5.000 rom stanziali, tant’è che ancor oggi a Napoli esiste una via degli Zingari».
Le tradizioni partenopee hanno lasciato tracce indelebili nel folklore di questa etnia. «Per esempio la buchvibbe, l’ambasciata musicale, unico mezzo legale a disposizione dello spasimante per notificare all’amata la sua volontà di sposarla. Chiederne la mano ai genitori in qualsiasi altra forma è considerato inammissibile. Si va sotto la finestra, si fa la serenata e l’indomani s’invitano a pranzo i parenti per formalizzare la proposta di matrimonio».
Dallo studio della lingua degli avi il professor Spinelli è giunto alla conclusione che i rom sono di origine indiana, precisamente del territorio compreso fra Pakistan, Punjab, Rajasthan e Valle del Sind. Banale controprova: la parola italiana «dentro» si scrive «antare» in sanscrito, «antari» in pracrito, «antari» in hindi, «andar» in kasmiri e «andre» in romaní.
«Dentro» è l’avverbio meno adatto a delineare lo stato dei rapporti fra gli otto milioni di zingari e i 38 Paesi d’Europa che li ospitano. «I rom sono sempre stati quelli da buttare fuori. Le politiche oppressive nei nostri confronti cominciarono alla fine del XV secolo. Il più antico bando italiano fu quello emanato nel 1483 dalla Repubblica di Venezia: le comunità romanès venivano espulse dal territorio della Serenissima con l’accusa d’essere masnade di ladri e spie dei turchi. A partire dal 1549 il Senato veneto autorizzava la caccia all’uomo con editti di questo tenore: “Coloro i quali uccidessero un membro di questa popolazione non abbino a incorrere in alcuna pena”».
Non meno misericordioso si dimostrò lo Stato pontificio: dei 210 bandi antizigani emanati fra il 1483 e il 1785 sul suolo italico, oltre un terzo (per l’esattezza 79) furono emessi in nome del Papa re, record mai eguagliato da nessun altro Stato europeo. Acqua passata. Oggi il professor Spinelli può addirittura vantarsi d’essere vicepresidente del Parlamento della Romaní Union internazionale, organismo che rappresenta la sua gente al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite.
Dov’è nato?
«All’ospedale di Pietrasanta, in Versilia».
Pensavo su una roulotte.
«In effetti sono nato in maternità per caso. La mia famiglia si spostava in continuazione perché viveva d’espedienti».
Quali espedienti?
«Papà portava i cavalli nelle fiere, raccoglieva cartoni, rottamava le auto vecchie».
Com’è riuscito a farsi assumere dall’Università di Trieste?
«Mi ha cercato nel 2002 la professoressa Silvia Monti, che coordina un corso suddiviso in tre aree: giudaismo, islamistica, balcanistica. Le serviva un esperto in quest’ultima materia».
Chi meglio di un rom.
«Ho fatto parte di tre gruppi di lavoro dell’Unione europea coordinati dal Centro di ricerche zingare della Sorbona di Parigi diretto dal professor Jean Pierre Liégeois».
Mi risulta che nel senato accademico non vi fosse pieno accordo nell’affidarle la cattedra.
«Non lo so. Io comunque non mi occupo di queste faccende. Vado a Trieste ogni 15 giorni, ho le mie dieci ore di lezione, tengo le sessioni d’esame e di laurea».
Gli studenti come la trattano?
«All’inizio hanno la puzza sotto il naso. Gli leggo negli occhi che si chiedono: che cosa può insegnare a me uno zingaro? Però alla fine del corso nove su dieci mi ringraziano commossi per avergli fatto scoprire una civiltà».
La cultura è un valore per voi?
«Sì, se ci viene offerta l’opportunità di studiare. Purtroppo solo 80.000 dei 120.000 zingari che vivono in Italia hanno una casa e possono accedere all’istruzione. Altri 40.000 sono invece emarginati, stritolati da associazioni di pseudovolontariato che li sfruttano e li tengono reclusi nei campi nomadi».
Non è un’accusa da poco.
«Lo so. Ed è per questo che io dico: chiudiamo i campi nomadi, subito. Sono lager moderni, pattumiere sociali, ricettacoli di malaffare. Aboliamo quest’orrenda forma di segregazione razziale. È l’unico modo per farla finita con i bambini costretti alla mendicità agli angoli delle strade e i furti nelle case».
Ma se i Comuni continuano a costruirne.
«Per forza. Assistenti sociali, mediatori culturali e Onlus campano speculando sulla pelle dei rom».
In che modo?
«In un mio libro l’ho definita Ziganopoli. Funziona così. Prima esperti, centri studi, buonisti e “amici” dei nomadi convincono la gente che i rom sono un problema sociale, offrendone un’immagine negativa. Poi si propongono agli enti locali come interlocutori privilegiati, gli unici in grado di dialogare con gli zingari e di tenerli a bada. Per cui presentano a getto continuo, a nome degli ignari nomadi, progetti di recupero e inserimento, lucrando fior di finanziamenti. Guardi, sono arrivato a una conclusione: con la metà dei quattrini spesi in Italia per assimilare i rom si potrebbe dare a tutti loro un tetto».
Ma lo vogliono?
«Proprio qui sta la diabolica mistificazione: far credere che gli zingari non desiderino una casa di mattoni, che amino vivere per loro vocazione dentro le roulotte parcheggiate nei campi nomadi, girovagando di qua e di là a seconda dell’umore».
Non è così?
«Non è mai stato così. I rom venuti in Italia dall’Oriente prima della caduta di Costantinopoli non sono diversi da quelli che si sono sparsi per l’Europa alla vigilia del crollo della cortina di ferro e della dissoluzione della Jugoslavia. Tutta gente che nell’area balcanica aveva un alloggio fisso e un’occupazione dignitosa. Siamo l’unico popolo al mondo a non aver mai impugnato le armi, mai combattuto una guerra, mai rivendicato un territorio. E in un’Europa etnocentrica quale altra via avevamo, per non finire come i maya o gli aztechi annientati dagli spagnoli, se non quella dell’umiltà?».
Vale a dire?
«Abbiamo fatto resistenza passiva ripiegando sulla mendicità. Nella scala sociale ci siamo collocati da soli dopo le prostitute, perché per la mentalità corrente è più dignitoso vendere il proprio corpo, e col ricavato comprarsi la Porsche, che tendere la mano per chiedere l’elemosina. Vivere in clandestinità, chiusi a riccio, e spostarsi in continuazione sono stati fattori fondamentali di sopravvivenza, facilitati dal fatto che allora non esisteva l’Interpol. Stiamo ancora sopravvivendo».
L’Interpol insegue solo chi commette reati.
«I rom non sono visti come portatori di diritti. In quanto rom, non potrebbero assimilarsi, neppure se lo volessero. Nelle scuole si fanno petizioni per cacciare l’alunno rom. Quale ginecologo visiterebbe una ragazza rom? Darci un posto di lavoro? Ma scherziamo! Giusto i sinti sono riusciti un po’ a integrarsi lavorando come giostrai e circensi».
Lei il posto di lavoro l’ha avuto, e che posto.
«Ma io appartengo ai rom stanziali di antico insediamento. Per il mio popolo inerme la mobilità coatta è invece da almeno un secolo l’unica alternativa all’espulsione, alla reclusione, all’inclusione, alla deportazione, allo sterminio. Mezzo milione di rom furono uccisi nei lager. Mio padre stesso venne catturato dai nazifascisti quando aveva appena 6 anni e deportato in un campo di concentramento, dal quale è tornato miracolosamente vivo».
L’Olocausto degli zingari è paragonabile alla Shoah?
«In toto. Noi lo chiamiamo Porrajmos, divoramento. Eppure non vi fu un solo rom ammesso a testimoniare contro gli imputati al processo di Norimberga. Oggi nessuno si sogna di offendere un ebreo. Siamo noi gli ebrei del terzo millennio».
A chi deve il suo riscatto sociale?
«Alle mie cinque sorelle. Io ero il più piccolo, l’unico figlio maschio. Hanno creato intorno a me una barriera protettiva, hanno vissuto in mia funzione. E lo devo anche alla maestra Sargiacomo, che mi ha fatto amare la scuola. Me la ricordo alle elementari di Lanciano, lunga lunga, magra magra. Veniva da Lodi. Il pomeriggio mi portava a casa sua per aiutarmi nei compiti».
Perché vi offendete se vi chiamano zingari?
«Perché non lo siamo. Per secoli siamo stati confusi con gli athingani, detti anche atsinganos, appartenenti a una setta eretica dell’Asia minore dedita al culto satanico e alla magia. Caduta Bisanzio e caduta la “a” di athingani, ecco gli tzigani e gli zingari. Che trovarono rifugio in Occidente e furono subito malvisti dalle corporazioni. Infatti, essendo eccellenti maniscalchi, stagnini e lavoratori di metalli preziosi, andavano di contrada in contrada e fregavano il lavoro agli artigiani locali. In Italia fino a quarant’anni fa i rom riuscivano ancora a esercitare un mestiere e a riconvertirsi. Ora non più. Lei pensi che a Pescara sono di ceppo romaní un noto industriale, il presidente di una Tv regionale e un sindacalista».
Quanti di voi vivono di mendicità?
«Degli 80.000 stanziali, saranno un migliaio quelli che sono costretti a chiedere l’elemosina».
Perché i capifamiglia mandano le mogli e i figli a chiederla?
«Perché donne e bambini suscitano più pietà nei passanti».
Io pensavo che lo facessero perché amano la vita comoda e vessano i deboli.
«No, no. È solo che conoscono bene la psicologia dei gagé, i non rom».
E così gli avanza più tempo per lucidare le Mercedes parcheggiate negli accampamenti.
«L’italiano suda tutta la vita per comprarsi la casa. Il rom per la macchinina, che costa pure meno e oltretutto gli serve per viaggiare. Io non ho la Mercedes, eppure mi sento un rom. Questi pregiudizi mi ricordano le reazioni sdegnate dei benpensanti quando incontrano una zingara ornata di monili che chiede l’elemosina. Non sanno che l’oro per noi ha un valore affettivo. Non si compra e non si cede per nessun motivo, si può solo ereditare. E ha una funzione apotropaica: le donne rom preferiscono morire di fame piuttosto che toglierselo di dosso, perché credono che protegga dal male e attiri il bene».
Qual è il primo valore dei rom?
«L’onore. Tutto si basa sui concetti di susipé e mellipé, puro e impuro. Sono mellipé la prostituzione, il turpiloquio, l’incesto, il sangue, la guerra, l’omicidio, l’aborto, il suicidio. Pur vivendo nelle discariche, i rom non si uccidono, il tasso di suicidio fra di noi è praticamente zero, perché la vita è susipé, pura, non va mai tolta, per nessun motivo. Invece un italiano preferirebbe spararsi piuttosto che vivere in un campo nomadi».
Avete un vostro codice?
«Leggi non scritte tramandate oralmente, come tutta la nostra cultura, di generazione in generazione».
E chi s’incarica di farle rispettare?
«La kris. È il tribunale formato dal consiglio dei phuré, i saggi. Per qualsiasi controversia etica, economica o matrimoniale i rom si rivolgono alla kris, che emette sentenze inappellabili».
Con quali sanzioni?
«Pecuniarie, in genere. La più grave è l’allontanamento dal gruppo, che si traduce in una doppia emarginazione».
Per un problema di eredità lei andrebbe dalla kris o da un giudice della Repubblica italiana?
«Dalla kris».
Fra gli atti impuri non ha citato il furto.
«Non è mellipé. Gli zingari non derubano gli zingari. Fregano gli altri perché gli altri fregano loro. Il furto è la rivalsa sociale del rom sul gagiò che lo tiene segregato».
Lei ha mai rubato?
«Da ragazzo, per forza. I colori per la scuola all’Upim. I cibi quando avevo fame. Era come fare la spesa. Poi ho capito che la società dei gagé ha regole diverse e ho smesso».
La gente vi considera belli, sporchi e cattivi.
«Susipé non è solo purezza morale ma anche igiene personale. Un popolo non è sporco per nascita. I campi nomadi sono luoghi degradati dove nessun uomo vivrebbe: un solo bagno per 100 persone. A casa mia ne ho quattro».
Di che religione sono i rom?
«Di tutte. Charlie Chaplin aveva una nonna romaní e un nonno ebreo. Ma a pagina 12 della sua autobiografia scrive che la nonna, e solo quella, era la vergogna della famiglia».
Preti rom ce ne sono?
«Tantissimi. Anche una suora. Anche un santo. Ero in piazza San Pietro il giorno in cui Giovanni Paolo II elevò alla gloria degli altari lo zingaro Zeffirino Giménez Malla, detto El Pelé. Nel 1936, durante la persecuzione comunista in Spagna, difese un prete che veniva portato in carcere. Fu arrestato e fucilato a Barbastro. Gli ho dedicato una canzone. Un uomo vero. Pelé in romaní significa testicoli».
La virilità ha molta importanza per i rom?
«Enorme. La sopravvivenza è data dal numero dei figli. Mio padre ne ha avuti dieci, quattro dei quali sono morti. Per prime gli sono nate cinque femmine e tutti lo schernivano. Poi per fortuna sono arrivato io».
Qualcosa vi vieta di far ricorso alla fecondazione artificiale?
«È impura. Come la contraccezione e il preservativo».
E lei come regola le nascite?
«Si cerca... Si evita».
Cioè?
«Coitus interruptus».
Non sto a chiederle dei rapporti prematrimoniali e dei gay.
«Mellipé, mellipé. La discendenza passa attraverso la donna, che dunque deve arrivare vergine al matrimonio. Quanto ai rapporti omosessuali, sono tabù. Andando contro natura, minano la sopravvivenza del gruppo. La presenza dei gay fra i rom è molto rara e in ogni caso mai appariscente».
Che cos’altro è vietato alla donna?
«Fumare. Vestire in modo provocante. Indossare il bikini. Ballare con estranei alla famiglia».
E quando le sue figlie le chiederanno di andare in discoteca?
«Eh no! Ma le leggi sono fatte apposta per essere infrante».
All’uomo non è vietato nulla?
«L’adulterio. Però è tollerato se avviene con una gagí, una donna non rom».
Lo chiedo al cantautore: «Prendi questa mano, zingara» cantata da Iva Zanicchi vi ha fatto più male che bene o più bene che male?
«Più male. I rom non sono né chiromanti né zingari».
stefano.lorenzetto@ilgiornale.

it
(326. Continua)

Commenti