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L'architetto-poeta fra "arche" e boutique

È morto il famoso progettista e designer milanese. Nella sua città firmò il Museo del Novecento

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Per fortuna Massimo Scolari è vivo. Sono a Riva del Garda, davanti al museo, il MAG, e nel prato che si affaccia sul lago vedo la rossa Saetta di Scolari, un'invenzione, pensata per la Biennale di Venezia vent'anni fa, che trasmette l'ira di Zeus. Scolari è un grande architetto, ma le sue opere più significative sono invenzioni di artista, opere d'arte. Così come creazioni e invenzioni - ricordandolo disperatamente- sono quelle di Gaetano Pesce. Si aggiunge a loro, ma purtroppo dalla parte dei morti, oggi, Italo Rota. L'avevo maltrattato molti anni fa alla vista del suo allestimento del museo archeologico di Jesi. Forse non ne avevo capito la fantasia, condizionato dall'esempio irripetibile di Carlo Scarpa. Ma poi lo ritrovai a Milano, quando fui assessore alla Cultura, e a lui tocco l'impresa fantasiosa del museo del Novecento al Palazzo dell'Arengario.

Capii allora che Italo Rota è un artista, anzi un poeta, dalla testa ai piedi, dagli occhiali alle scarpe; e la sua fantasia è la risposta post-postmoderna al razionalismo che ha dominato l'architettura del Novecento.

Rota era soave. Al nostro primo incontro, nel 2006, si presentò con i sandali, e fu come se avesse camminato sempre con me, ignorando le mie polemiche che si estendevano da lui a Sottsass a Mendini. Era come se fosse sempre stato con me, conosceva le mie passioni nell'arte antica e le mie posizioni sull'architettura contemporanea. Sorrideva, parlava a bassa voce, giocava, era complice. Non erano i grandi spazi il suo divertimento ma gli oggetti, i libri d'artista, i pezzi domestici, quelli che lui chiamava l'arca di Noè.

Le «cose» nella sua casa hanno il ruolo non solo di presenze volumetriche (arredi e oggetti, libri e collezioni) ma diventano parte di una unità spaziale, protagoniste insieme con Italo e Margherita di un mondo conosciuto, attraverso frammenti e memorie di una storia personale che si fa testimonianza del nostro tempo, per le scelte e le curiosità dei ricercatori. In una sorta di caverna energetica, così come Rota definisce alcuni interni improbabili quanto reali. Un originale deposito del tempo alla Orhan Pamuk, che contiene stanze fluttuanti e sospese come capsule compiute che si aprono a diverse angolazioni nell'Arca di «Noerota». Uno spazio domestico di incastri calibrati e precisi che ci rimanda al Merzbau di Kurt Schwitters (1933). All'idea di «capsula», che ritroviamo in vari ambienti sospesi nello spazio principale, ci porta anche il bagno, con una grande vetrata rosa e trasparente verso la zona giorno, e le due addizioni volumetriche che alle estremità opposte della casa si aprono verso il giardino interno, ricavato in un cortile chiuso. Camera da letto e cucina sono due piccoli padiglioni compiuti oltre grandi vetrate aperte verso il giardino ripartite con infissi di ferro di provenienza industriale. Così la casa in pianta ha una forma a «U» oltre la facciata dello stabile di ringhiera che, alzando gli occhi, si mostra con i suoi ballatoi e i panni stesi, facendoci ricordare di essere a Milano, in uno spazio urbano d'altri tempi che la città del presente, seguendo modelli omologati, intende cancellare.

Italo Rota giocava come un eterno bambino e aveva ragione a parlarmi come un amico: aveva la mia stessa età, veniva dagli stessi anni, e sentiva che il suo compito era segnare un'epoca. La nostra, dopo quella di Andy Warhol, dopo il postmoderno di Philip Johnson e di Paolo Portoghesi, dopo Franco Albini, Vittorio Gregotti e Aldo Rossi. Sentì l'aria dei tempi con Gae Aulenti, e con lei lavorò al museo d'Orsay, al Centre Pompidou, e poi anche al Louvre. Quando ci presentò il progetto per il museo del Novecento a Milano, faticavamo a capire che eravamo usciti dalla stagione dei classici, dal razionalismo, dalla fantasia di Carlo Scarpa e del postmoderno, per trovarci in uno spazio architettonico emotivo, in cui tutto è filtrato dalla sensibilità dell'architetto, anarchica e frichettona, che è anche la nostra, con le stesse cose viste ed esperienza vissute. Si spiega così la affinità estetica di Rota con alcune personalità del mondo della moda come Roberto Cavalli, con il quale lavorò a case e boutique. Lo stesso stile.

Collaborando con Carlo Ratti, Italo Rota ci dice i suoi processi estetici pensando al padiglione Italia, che vuol dire la più alta civiltà architettonica, per gli emirati arabi. Il suo è un inno alla mobilità, come se l'architettura dovesse pesare non sull'acqua ma sulla terra. «Sarà un padiglione atmosferico, leggero, permeabile. Quasi come se fossimo a bordo di un'imbarcazione».

Per questo lo ricorderemo; per avere ampliato gli elementi naturali dell'architettura.

Acqua, aria, cielo; non solo terra.

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