Con oltre un secolo e mezzo di ritardo sull'Europa, il mondo arabo sta vivendo il suo 1848: l'anno in cui, partendo dalla Francia di Luigi Filippo, il movimento di rivolta contro i regimi autoritari figli del Congresso di Vienna si diffuse rapidamente all'Austria-Ungheria, alla Prussia e all'Italia, dove sfociò nelle Cinque Giornate di Milano, nella Repubblica romana e nella Repubblica di San Marco. Stupefacente, per quell'epoca senza radio, TV e Internet (e perfino senza telegrafo) fu la rapidità del contagio: a Parigi il re fu costretto alla fuga e la monarchia abbattuta il 23 febbraio, e già il 2 marzo esso era arrivato a Berlino e il 13 a Vienna: più o meno il tempo che ha impiegato a passare dalla Tunisia, riuscita a sbarazzarsi con sorprendente facilità del despota Ben Ali, all'Egitto e allo Yemen, dove per ora i regimi, avendo avuto più tempo per prepararsi all'onda d'urto, sembrano decisi a tenere duro. Ma già, sempre come avvenne a suo tempo da noi, ci sono segni che il movimento rivoluzionario potrebbe estendersi anche al resto del mondo arabo, in particolare alla Giordania, alla Siria e perfino alle monarchie del Golfo.
Né le analogie finiscono qui. Come nel 1848 in Europa, la ribellione nei Paesi arabi è nata da un esplosivo mix economico-politico. Allora, il principale fattore scatenante fu la grave crisi dovuta a una battuta d'arresto dell’incipiente rivoluzione industriale e a due anni di cattivi raccolti, che avevano generato una vera e propria carestia; adesso, ad accendere la miccia sulla riva meridionale del Mediterraneo è stato un repentino aumento dei generi di prima necessità, accompagnato da una diffusa disoccupazione e da una iniqua distribuzione della ricchezza. Allora, una alleanza tra borghesia e proletariato contro governi illiberali, repressivi e ormai anacronistici, con il successivo intervento di fattori nazionalistici, diede vita a quella che fu chiamata «la primavera dei popoli»; adesso, da Tunisi al Cairo, sono scesi in piazza fianco a fianco gli esponenti di una classe media priva di sbocchi, insofferente di una oligarchia ottusa e corrotta, e di un proletariato che spesso non riesce a cucire la colazione con la cena, con l'obbiettivo dichiarato di abbattere governi che da decenni li tengono in soggezione.
Rimane da vedere se simili saranno anche i risultati. Per l'Europa il 1848 fu un anno di svolta, forse il più importante del secolo: anche se l'asse borghesia-proletariato si spezzò ben presto e nella maggior parte dei Paesi l'ancien régime riprese temporaneamente il sopravvento, il continente ne uscì più liberale e più democratico, pronto per nuovi passi avanti. Che cosa rappresenterà il 2011 per il mondo arabo? La possibile caduta di alcuni dei regimi che ne hanno garantito fin qui gli equilibri, anche con il sostegno dell'Occidente, può davvero costituire un passo avanti, anche in mancanza di un retroterra ideologico e culturale paragonabile a quello europeo della metà del XIX secolo? Possono Facebook e Twitter sostituire i pensatori liberali che ispirarono il 1848? Alcuni fattori inducono a dubitarne: la mancanza di una autentica tradizione democratica, la tradizione autoritaria che ha sempre caratterizzato quella parte del mondo e soprattutto il peso crescente (anche se in parte ancora occulto) che sta avendo nella rivolta la componente islamista. Abbiamo visto, per esempio, che la rivolta iraniana del 1979, forse l'unico precedente cui è possibile rifarsi, non ha portato la libertà ma solo la sostituzione del regime dello Scià con uno ancora più repressivo e oscurantista. Neppure gli ultimi sviluppi in Tunisia, del resto, sono del tutto rassicuranti.
Inoltre, è impossibile accomunare tutti i Paesi arabi in un'unica previsione, perché le differenze tra un Egitto e una Siria, dove la cultura occidentale ha un suo peso rilevante, e uno Yemen, un'Arabia Saudita o un Sudan sono enormi. Per adesso, non ci rimane che seguire con il fiato sospeso gli avvenimenti che si stanno dipanando tra Mediterraneo e Golfo, con l'augurio ai popoli arabi di non cadere dalla padella nella brace.
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