Le 7 leggi di Chinatown: «Primo, non invadere il territorio di altri boss»

PUNITO Ucciso a colpi di machete per aver creato un giro di spaccio senza autorizzazione

MilanoÈ un decalogo scritto col sangue. Sono le regole per controllare Milano. Così le bande cinesi si spartiscono la piazza. Spaccio, pizzo, gioco d’azzardo. Le mafie non ammettono concorrenza. Ogni confine dev’essere marcato. Quel confine, Hu Libin l’aveva superato. Infrangendo la prima di tutte le regole. «Non invadere il territorio degli altri». Hu l’ha fatto. Era un giovane boss. Il capo di una nuova fazione. Affamato di denaro e «carriera». Il suo primo passo nel mondo della criminalità è stato anche l’ultimo. Ucciso a colpi di machete fuori da un discoteca, la notte del 23 febbraio. Aveva 21 anni.
È uno spaccato di ferocia, ambizioni e precetti inviolabili, quello che emerge dai verbali e dalle intercettazioni telefoniche della gang di cinesi arrestati nell’aprile scorso al termine di un’indagine dei carabinieri del Nucleo investigativo e della squadra mobile di Milano. Un gruppo dominante, già radicato nel territorio, si trova a fare i conti con un antagonista inatteso. Hu Libin vuole entrare nel business della droga e delle estorsioni. Chiede un incontro con un cinese che importa grandi quantitativi di chetamina e anfetamina dall’Olanda. Tai Zi, il «vecchio» boss, lo viene a sapere. E decide che è il caso di lanciare un avvertimento. Il 28 febbraio, un testimone mette a verbale. «Nell’occasione in cui il pusher è giunto in Italia, è stato avvicinato anche da Hu Libin, il quale voleva allacciare un rapporto diretto col fornitore. Di questo fatto è venuto a conoscenza Tai Zi, che ha incontrato Hu Libin in una discoteca». Le prime tre regole. «Tai Zi lo avvisava che se avesse voluto mettere piede a Milano avrebbe dovuto rispettare tre condizioni essenziali: non spacciare chetamina su quella piazza, non chiedere il pizzo ai negozianti cinesi, non commettere furti e rapine in un territorio che non era il suo». In caso contrario, «avrebbe guadagnato tanto e ci avrebbe fatto concorrenza prendendo potere nel Milanese». Hu non ascolta l’avvertimento, ma capisce di aver varcato un limite. «Così - racconta un membro del suo clan - ci aveva ordinato di comprare dei machete che sarebbero serviti per difenderci nel caso di un’aggressione».
Il 23 febbraio, Libin affitta una discoteca. È il suo ingresso in «società». Una notte per entrare nel mondo dello spaccio. Una festa, quando già un’altra serata era stata organizzata. Altra violazione. Perché ogni festa è un «droga-party». E due, in contemporanea, significa doversi dividere i clienti. Cong Mei, altro boss, non la prende bene. Spiega un teste che «Hu Libin aveva preso accordi con Cong Mei per aprire questo locale tra due mesi, però Hu ha deciso di aprire lo stesso in anticipo e questo ha scatenato l’ira di Cong Mei». Ancora. «Avevamo discusso all’interno del nostro gruppo dell’intenzione di Hu Libin di spacciare a Milano. Sono andato a chiedere a quelli di Brescia (altro gruppo con interessi nel capoluogo lombardo, ndr), e abbiamo chiesto loro di suggerirci come non farci sottomettere, e il capo della banda ha detto di fare a botte e distruggere il locale». La diplomazia viene messa da parte. «Si poteva risolvere la cosa in maniera bonaria, facendo andare gli affari meglio di quelli di Hu Libin. Ma poi è stato deciso di usare la violenza». Così parte la spedizione. Dai Navigli a Paolo Sarpi, la Chinatown milanese.
«Hu Libin voleva invadere il nostro territorio per lo spaccio di stupefacenti, per il gioco d’azzardo, le estorsioni e le riscossioni di percentuali sulle vendite dei negozi». Per questo «volevamo dargli una lezione». La banda entra nel locale. Gridano «Chi ha aperto questa discoteca?». Hanno armi da fuoco, spranghe e lame. «Con la pistola hanno sparato due colpi. Erano più di dieci persone che lo picchiavano in testa».

Hu cerca di scappare. La fuga del giovane boss finisce in strada, con un coltello piantato nella schiena. «Chiunque avrebbe fatto la stessa cosa, non si può andare nel territorio degli altri». È la prima regola. E chi la viola muore.

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