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Abolire tutti i prefetti? Inutile, costano il 4% di una sola provincia

Dalla violenza negli stadi ai Consigli da sciogliere: sono i parafulmini di gravi problemi. E liquidarli farebbe risparmiare appena 14 milioni

Abolire tutti i prefetti? Inutile, costano il 4% di una sola provincia

Piove, nevica, viaggiare è impossibile, bisogna sgombrare un piazzale dove parcheggiare i tir: ci pensa il prefetto. Un gruppo di tifosi scalmanati minaccia la tranquillità degli stadi: chi osa rinchiuderli a casa? Il prefetto. Chi vieterà loro le trasferte? Ancora il prefetto. E chi ordinerà alla Rai regionale di trasmettere in tv le partite a rischio per evitare altra tensione? Sempre il prefetto. I manifesti elettorali sono irregolari: il prefetto li fa togliere. Il consiglio comunale è infiltrato da mafiosi e camorristi: il prefetto lo scioglie. Gli schiamazzatori estivi sconvolgono la quiete pubblica: il prefetto blinda le strade della «movida». Il «millennium bug» minaccia i computer: in prefettura si allestisce un centro di emergenza. I clandestini vengono espulsi con un provvedimento del prefetto, l’ordine pubblico è coordinato dal prefetto, come la protezione civile, i vigili del fuoco e le banche cattive che non vogliono fare credito agli imprenditori in crisi.
Sorge un problema, scoppia un’emergenza, si presenta un problema che deve essere risolto da qualcuno che sia davvero sopra le parti: pane per i prefetti. Dove vive un sindaco capace di contrastare i tifosi che l’hanno votato? Un’autorità cui affidare imparzialmente la macchina elettorale? Un politico che si sobbarchi la gestione di multe, patenti e porto d’armi senza il sospetto di favorire parenti e amici? Oggi il prefetto è il parafulmini su cui si scaricano le faccende delle quali nessuno vorrebbe occuparsi e anche quelle di cui farebbe molto comodo impadronirsi. Ma nella gara a trovare i capri espiatori della crisi, è uno degli anelli più deboli. Se c’è da tagliare, il primo pensiero va alle prefetture. Sono funzionari usi obbedir tacendo, che rispondono al ministero (e non al politico) e non godono di grande considerazione pubblica: per tanta gente, il prefetto non è altro che il burocrate taglia-nastri, il dispensatore di onorificenze, il titolare della poltrona di prima fila ai convegni più noiosi. Un’immagine lesionata, come la foto della prefettura dell’Aquila terremotata che un anno fa fece il giro del mondo.
Così, periodicamente, si apre il tiro al prefetto. Figura decorativa, pletorica, costosa, retaggio dell’eredità napoleonica, giolittiana e fascista. Passiamo le loro competenze ai presidenti delle province, propone un fronte che dalla Lega si allarga fino al Partito democratico sognando risparmi da capogiro. Ma le prefetture non hanno bilanci autonomi, soltanto fondi di dotazione assegnati dal Viminale per gestire l’ordine pubblico e le elezioni. Non possono aumentarsi gli stipendi come gli amministratori locali, né finanziare sagre o assumere consulenti fuori controllo. Hanno carriere rigide, competenze chiare e buste paga nemmeno paragonabili a quelle dei dirigenti ministeriali.
Il cosiddetto «corpo prefettizio» conta 1787 persone, secondo i dati forniti dal Sinpref, il maggiore (oltre 600 iscritti) dei quattro sindacati che tutelano la categoria: gli altri sono lo Snadip Cisal (300), la Cisl (130) e l’Ap (Associazione prefettizi, una cinquantina di aderenti). I prefetti sono 156, un centinaio disseminati nelle sedi provinciali e gli altri al Viminale; 719 i viceprefetti e 912 i viceprefetti aggiunti. La carriera comincia con un concorso pubblico per la qualifica di consigliere e prosegue con un corso biennale alla Scuola superiore di amministrazione dell’Interno. Lo stipendio è composto da quattro voci: la paga tabellare, gli scatti di anzianità, la retribuzione di posizione e quella di risultato, più eventuali indennità per le sostituzioni temporanee o gli straordinari elettorali. Si va dai 57mila euro lordi annui di un viceprefetto aggiunto di fascia G ai 151.887,44 di un prefetto di fascia A di particolare rilevanza, cioè capo della polizia, capo di gabinetto del ministro, capo dipartimento, prefetto di Roma-Milano-Napoli, direttore Affari legislativi.
Complessivamente, gli emolumenti dell’intero corpo prefettizio costano al bilancio statale ogni anno circa 14 milioni di euro. Per fare qualche paragone, la provincia di Roma (presidente Nicola Zingaretti, Pd) per il 2010 ha stanziato 121 milioni di euro per investimenti e 431 milioni per le spese correnti. La provincia di Bari (presidente Francesco Schittulli, Pdl) ha varato un preventivo da 286 milioni di euro. E quella di Bergamo, che «se la toccano è guerra civile» come ha detto Umberto Bossi (presidente è il leghista Ettore Pirovano), ha in bilancio oltre 350 milioni di euro e le paghe dei 14 dirigenti superano i 100mila euro lordi annuali, con punte di 208mila. Se tutte le prefetture italiane fossero liquidate e licenziato l’intero staff dei quasi 1.800 funzionari, lo stato risparmierebbe una somma pari al 4 per cento del bilancio della provincia di Bergamo. La classica gocciolina nel mare.
È stato detto e scritto che i prefettizi hanno appena ottenuto un lauto aumento di stipendio. Vero: sindacati e ministero della Funzione pubblica hanno concordato il 6 maggio scorso uno scatto di 200 euro netti mensili per il viceprefetto aggiunto, 300 per il viceprefetto e 450 per il prefetto (che salgono a 630 per quello di fascia A). Tuttavia l’accordo, relativo al biennio 2008-9, non è stato firmato. La manovra di Tremonti ha bloccato tutto. Così quelli che sembrano dei privilegiati in realtà sono i primi ghigliottinati. E le loro buste paga restano ben lontane da quelle degli alti dirigenti dei ministeri, Interno compreso.
L’offensiva anti-prefetti, dunque, non ha ragioni economiche. Dopo la guerra, la «longa manus» del governo controllava ogni mossa degli enti locali. Non c’era nomina, delibera o spesa che sfuggiva le forche caudine della giunta provinciale amministrativa, che vagliava i provvedimenti nel merito e nella forma. I sindaci avevano autonomia limitata, si diceva amministrassero sotto schiaffo del prefetto-censore. Negli anni le autonomie sono cresciute, i poteri dei prefetti svuotati e parallelamente la spesa pubblica è esplosa: oggi il controllo sugli enti periferici è demandato ai singoli cittadini attraverso i ricorsi al Tar oppure è svolto dai revisori dei conti scelti dagli stessi amministratori pubblici. Il controllato che nomina il controllore è un bel conflitto d’interessi di cui non si parla mai.
L’ultima consistente sforbiciata ai compiti delle prefetture, ribattezzati Uffici territoriali del governo, è arrivata dalla riforma Bassanini a cavallo del 2000 che le riteneva un grosso ostacolo verso la semplificazione burocratica. Oggi i prefetti sono le massime autorità provinciali in materia di pubblica sicurezza per garantire coesione tra le questure e le altre forze di polizia secondo le linee dettate dal Viminale. Hanno conservato il coordinamento della protezione civile, l’organizzazione elettorale, la gestione dei contenziosi sul codice della strada (multe, patenti sequestrate, ricorsi, eccetera).
Paradossalmente, però, in questi anni i compiti dei prefetti sono cresciuti con una miriade di compiti che impongono una certa responsabilità. L’ultimo incarico sono gli Osservatori sul credito voluti dal ministro Tremonti d’accordo con il leghista Maroni quando le banche non prestavano più denaro alle imprese. Prima erano arrivati gli sportelli polifunzionali sull'immigrazione. E ancora i centri di emergenza per affrontare il «millennium bug». I comitati provinciali per accompagnare il passaggio dalla lira all’euro. Il potere di commissariare le amministrazioni comunali infiltrate dalla malavita e di rilasciare le certificazioni antimafia. Mansioni affidate al prefetto perché ritenuto garanzia di «terzietà», di equilibrio sopra le parti. E che fanno gola ai politici.


(1. Continua)

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