Roma - L’Italia è uno dei Paesi d’Europa dove gli stipendi sono più bassi. Ed è sicuramente quello dove, negli ultimi anni, le retribuzioni sono cresciute di meno. A certificarlo è stata una recente indagine della Ires-Cgil su salari e produttività. Fatto 100 il livello retributivo dell’industria manifatturiera nel 1998, nel 2006 gli stipendi italiani erano arrivati a 102,6. Incremento mini rispetto a quello di Paesi con una trazione di relazioni industriali simile alla nostra, come la Germania, dove le retribuzioni del 2006 si sono attestate a 105, o la Francia, che ci umilia con stipendi a 115,9. Le differenze diventano enormi se ci confrontiamo con un Paese di tradizione liberale come il Regno Unito, dove l’indice delle retribuzioni ha raggiunto il 118,4 per cento. E persino negli Stati uniti l’indice è migliore del nostro: 104,7.
Dati che colpiscono soprattutto se si considera che si tratta di Paesi dove gli aumenti sono decisi secondo meccanismi che la vulgata vorrebbe più sfavorevoli per i lavoratori. Dove la contrattazione non è, come in Italia, unica e nazionale e magari viene, come nel caso degli Usa, decisa azienda per azienda. Oppure è fortemente decentrata, come in Inghilterra.
La spiegazione data dall’Ires-Cgil non è legata al sistema di contrattazione in vigore in Italia. Gli aumenti sono minimi a causa dei «diversi tassi di inflazione registrati nei vari Paesi». In sostanza sarebbe soprattutto il carovita a mangiarsi le retribuzioni italiane.
Di altro avviso economisti e aziende, in particolare quelle piccole, che vedono la causa soprattutto in un sistema nel quale gli aumenti sono decisi esclusivamente da una contrattazione collettiva nazionale. Tesi che un bel pezzo di sindacato condivide da tempo.
E sulla quale ormai anche la Cgil sembra avere cambiato idea. Dopo anni di resistenza - raccontano Cisl e Uil - anche il sindacato della sinistra si è convinto che il sistema dei contratti così com’è non va bene e deve essere riformato, rendendolo più snello, con aumenti legati alla produttività. In altre parole, se l’impresa va bene anche chi ci lavora deve avere la sua parte. In caso contrario, inutile appesantire le aziende.
Le tre confederazioni hanno costituito un gruppo di lavoro che dovrà arrivare in tempi rapidissimi a una proposta unitaria. Poi il nuovo incontro con Confindustria, che viale dell’Astronomia vorrebbe si tenesse prima di Natale. L’intenzione questa volta è quella di chiudere per portare a casa, magari non una rivoluzione delle relazioni industriali, ma qualche cambiamento sì.
L’atmosfera è cambiata rispetto a qualche anno fa, quando la Cgil fece saltare il tavolo alla prima riunione perché indisponibile a rivedere le regole decise nel 1993. Si può addirittura dire che lo sciopero generale minacciato dalle tre confederazioni sia, di fatto, in sostegno alla riforma, visto che la principale richiesta, oltre alla chiusura dei contratti aperti, consiste in un taglio delle tasse in busta paga, che non potrà che essere concentrato sugli aumenti concordati nelle trattative di secondo livello, quindi aziendali.
Sembra, quindi, che si cerchi di recuperare il tempo perduto. «Se le retribuzioni sono basse è per i ritardi nei rinnovi dei contratti e anche per la debolezza del secondo livello», spiega Giorgio Santini della Cisl. «La Cgil ha responsabilità nel ritardo con il quale si è affrontato il tema della riforma», aggiunge Paolo Pirani, segretario confederale della Uil.
Ma il cambiamento serve anche a mettere le aziende in condizione di creare ricchezza. «In Italia la produttività è troppo bassa, i salari sono bassi e il costo per unità di prodotto è alto. In questo modo è chiaro che sono tutti scontenti», spiega Maurizio Sacconi, senatore di Forza Italia ed ex sottosegretario al welfare.
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