Le municipalizzate rosse fanno shopping, il governo Berlusconi riduce i loro debiti. Attraverso gli accordi trentennali con gli Ato (praticamente irrisolvibili, pena danarose penali a carico del contribuente) e grazie anche a una transumanza di ex manager pubblici vicini al centrosinistra ai vertici delle 91 Autorità di ambito territoriale, negli ultimi 15 anni queste società non hanno investito a sufficienza nella ristrutturazione della rete degli acquedotti (come dimostrano le ricerche di Kpmg e Althesys pubblicate ieri sul Giornale), ma hanno preferito andare a caccia di azioni. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti: il sistema fa acqua e manca un’Autorità di controllo che sorvegli e sanzioni le irregolarità. Il dl Ronchi, la riforma di riassetto del sistema dei servizi pubblici che entrerà a regime nel 2012 la prevede, anche se non è chiaro se si tratterà di un Garante vero e proprio, di una sezione specifica in capo all’Authority per l’Energia o di un rafforzamento del Co.vi.ri (il comitato per la vigilanza dell’uso delle risorse idriche).
Anziché liberalizzare il sistema e sottrarre un bene così prezioso dal giogo della politica, separando la proprietà delle reti dalla gestione del servizio idrico, si è preferito percorrere una strada che ha dato solo problemi e creato debiti. «Colpa» anche della stessa legge Ronchi, che anziché disinnescare questo meccanismo finanziario, l’ha reso obbligatorio. Non è un caso che le critiche al provvedimento siano arrivate da importanti componenti della stessa maggioranza, con in testa la Lega Nord. E dunque, entro il 2012 le società che vogliano continuare ad assegnare la gestione dei servizi idrici anche senza gara (procedura sanzionata dalla Ue) dovranno abbassare la quota di controllo pubblico al 30%.
Un peccato «politico» per chi, come il sindaco di Roma Gianni Alemanno, aveva la possibilità di modificare la governance dell’ex municipalizzata romana Acea, fino a ieri poltronificio delle giunte rosse Rutelli e Veltroni e di Francesco Gaetano Caltagirone, editore del Messaggero e suocero del leader Udc Pier Ferdinando Casini. Il caso Acea è emblematico: controllata al 51% dal Comune di Roma, tra gli azionisti di minoranza «pesante» ci sono la francese Gdf-Suez (9,9%), partner nelle joint venture elettriche in AceaElectrabel, che vorrebbe comprare più azioni e lo stesso costruttore romano Francesco Gaetano Caltagirone (azionista con circa il 7,9 per cento delle quote) assieme al fondo britannico Pictet (2,2%). La cessione delle quote in mano al Campidoglio (agli attuali prezzi di mercato, visto che negli ultimi 20 mesi ha dimezzato il suo valore passando dai 13,5 euro di maggio 2008 agli attuali 7 e rotti) vale tra i 300 e i 400 milioni di euro. Una mossa annunciata dallo stesso Alemanno al Sole24Ore qualche giorno fa, che non è passata inosservata. Le azioni Acea infatti fanno gola agli azionisti di minoranza come Gdf e Caltagirone, che ha la prelazione sull’acquisto, ma anche ad altri soggetti come Iride e la milanese A2A.
Il Corriere della Sera, qualche giorno fa, ha malignamente lasciato intendere che questa decisione sia in qualche modo legata all’alleanza Pdl-Udc che sostiene Renata Polverini. E che smentisce quanto Alemanno aveva annunciato solo a settembre scorso, anche se la risposta ai dubbi dei suoi detrattori è appunto: «Sono obbligato dalla legge Ronchi». Vero. Ma è altrettanto vero che così facendo la sua amministrazione di centrodestra agevola la crescita, nella municipalizzata romana, di soggetti oggi in minoranza e storicamente vicini al Pd come l’emiliana Hera. Acea e Hera per anni si sono annusate, e il reciproco interesse non è mai veramente scemato. Hera è la multi utility emiliana, controllata al 62% dai Comuni della Provincia di Bologna (18,8%), Romagna (26,0%), Modena (13,9%) e Ferrara (3,3%). Il restante 38% è flottante in Borsa. La guida l’ex Telecom bresciano Tomaso Tommasi di Vignano (già Iritel e Stet) e considerato vicinissimo all’ex premier Romano Prodi, che è rimasto scottato dal mancato matrimonio con Enia e Iride, sponsorizzato dalla sinistra. Ieri ha chiuso a 1,65 euro ma in passato valeva anche 3,30 euro. Nel 2007 la sinistra avrebbe fortemente voluto una fusione a tre tra la ex municipalizzata, Enia (nata dalla fusione, avvenuta nel marzo 2005, tra Agac, Amps e Tesa, aziende municipalizzate delle Province di Reggio Emilia, Parma e Piacenza) e Iride (nata grazie all’integrazione fra Aem Torino e Amga Genova, oggi il terzo operatore nazionale nel settore dei servizi a rete).
Hera è stata esclusa, con grande rammarico di Tommasi di Vignano, e anche il matrimonio tra Iride e Enia attraversa un periodo di burrasca: colpa delle sanzioni dell’Unione europea comminate alle utility nel periodo 1996-1999, quando il centrosinistra consentì alle «sue» municipalizzate di quotarsi in Borsa grazie a incentivi fiscali che Bruxelles (che forse non aspettava altro) ha deciso di bollare come «aiuti di Stato» e sanzionare. Multe salate, mica bruscolini.
Mentre Enia, quotata in Borsa molto dopo, ha i conti a posto, i debiti con l’Erario di Iride sarebbero di 135 milioni di euro. «Sono debiti che non abbiamo intenzione di accollarci», disse qualche mese fa il sindaco di Reggio Emilia Graziano Delrio. Tra le utility che usufruirono di aiuti di Stato nello stesso triennio ci sono anche la lombarda A2A, Acea e la stessa Hera. La cosa strana è che a togliere dai guai le ex municipalizzate rosse ci sta pensando il governo Berlusconi. Qualche settimana fa il sottosegretario all’Economia Stefano Saglia ha annunciato che Palazzo Chigi ha intenzione di presentare all’Unione Europea una proposta per alleggerire l’impatto della restituzione da parte delle ex municipalizzate degli aiuti di Stato legati alla moratoria fiscale adottata dal centrosinistra. Il primo passo è stato già compiuto: il decreto legge «Obblighi comunitari» dispone la restituzione di circa 400 milioni di euro a carico delle ex municipalizzate, a fronte di una multa di 1,2 miliardi di euro che il commissario Ue per la concorrenza, Neelie Kroes, aveva comminato.
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