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Addio Candido, fratello maggiore dei cronisti leali

La puntata finale della sua rubrica «Fatemi capire», che a ritmi incalzanti la Gazzetta pubblicava, era dedicata al dramma del tifoso di Marassi e alla figura controversa del presidente genoano Preziosi e cominciava con questo pensiero: «I siciliani antichi dicevano che non basta una vita per conoscere interamente una persona». Candido aveva ragione, perché adesso, nel momento doloroso della sua improvvisa scomparsa, forse non sono il solo a domandarsi chi sia stato, chi fosse fino in fondo il maestro di giornalismo salito tanti anni fa dalla Sicilia di Catania alla conquista del potere sportivo-editoriale rappresentato dalla «rosea» milanese.
Cannavò, con il quale mi è capitato di dividere tanti giri del mondo per indagare e descrivere i capricci, i segreti e le storie dolci e amare dell’agonismo, mi è sempre sembrato il «barone buono» di un mestiere sublime e bruciante, l’alfiere leale di una missione spietata percorsa da veleni e prodiga di coltellate, un autorevole punto di riferimento per i giovani avviati, talvolta senza scrupoli, alla scalata della carriera. E ne ricordo certi comportamenti generosi meritevoli di una gratitudine destinata a stabilire legami interpersonali che andavano ben oltre i limiti della stima professionale.
Un giorno di tanto tempo fa ci trovavamo testimoni del medesimo avvenimento internazionale che si stava svolgendo in Portogallo. I computer erano di là da venire, i cellulari non erano neppure immaginabili. Le notizie e gli articoli dovevamo necessariamente trasmetterli ai giornali attraverso i telefoni. Non c’era la teleselezione e noi eravamo nelle mani dei centralini aspettando lo squillo salvatore anche per ore. Capitò allora che Candido ed io, ospiti dello stesso albergo, avevamo i nostro articoli pronti dalle 3 del pomeriggio e ormai si erano fatte le 7. Niente da fare, le telefonate non arrivavano nonostante i nostri disperati solleciti. A un tratto, finalmente, ecco il trillo del telefono nella camera di Candido. Lui alzò la cornetta, mi guardò e disse: «Hai più fretta e sei più corto di me. Tramite il mio centralino mi faccio passare il tuo giornale. Detta e poi prega il tuo centralino di ripassarmi il mio. Stai tranquillo. Si può fare. Ci ho già provato. Funziona».
Lui era un giornalista già affermatissimo, io avevo ancora tante cose da imparare. E quel suo gesto da fratello maggiore mi è rimasto piantato come un segnale luminoso nella memoria, come una prova esemplare di quale nobiltà si nascondesse nelle corde di Candido, dell’uomo ancor prima che del professionista.
Gino Palumbo, geniale scopritore di talenti, aveva visto giusto puntando sul Cannavò che sarebbe diventato il suo più autorevole successore. Un autore e un direttore storico della Gazzetta e, con il susseguirsi delle epoche, anche brillante scrittore di saggi e di libri rivolti ai casi non soltanto sportivi ma pure a quelli d’impatto comunemente sociale. Non c’era disciplina agonistica o problema di politica dirigenziale che lo trovasse scoperto e disarmato. Candido aveva mille occhi e una capacità di produzione veloce quasi maniacale. La sua crescente popolarità, i premi e i trofei personali e quel suo inconfondibile accento siciliano lo avevano portato alla ribalta delle televisioni. Era a modo suo un vero prototipo.


Ora che ci ha lasciati, restano il vuoto profondo di un modello perduto e la commozione per gli abbracci e le strette di mano che ormai possiamo soltanto ricordare.

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