Controstorie

Addio gioiosa Maracaibo La miseria regna padrona

La regione petrolifera più ricca del Paese è in ginocchio. Oggi manca spesso anche l'elettricità

Paolo Manzo

«Maracaibo, balla al Barracuda». Quando nel 1981 Lu Colombo uscì con questa canzone - simbolo degli anni '80 in cui tutto era più semplice perché il mondo era ancora bipolare - Maracaibo, la seconda città del Venezuela con i suoi quasi quattro milioni di abitanti, era quanto di meglio per vivere. Spettacoli degni di Broadway, cinema multisala e ristoranti gran gourmet oltre a un numero record di Ferrari, a tal punto che era considerata il simbolo della Venezuela «saudita», che viaggiava anni luce davanti a tutti gli altri Paesi sudamericani. E non solo dal punto di vista economico (è capitale della regione che da sola estraeva un terzo del petrolio dal Paese con le maggiori riserve planetarie), ma anche in materia di diritti umani. Già perché nel 1981 il Venezuela era una delle poche nazioni democratiche della regione e, chi scappava dalle dittature di Argentina, Cile, Uruguay, Paraguay, Brasile e Bolivia se non andava a Roma, Parigi o in Scandinavia, si rifugiava proprio a Maracaibo. Del resto nella Venezuela di quegli anni il líder máximo Fidel Castro era ricevuto con ogni onore da presidenti come Carlos Andrés Pérez, cieco di fronte alle infiltrazioni cubane all'interno del suo esercito di cui Chávez sarebbe poi stato il degno risultato, costringendolo a morire in esilio.

«Maracaibo, balla al Barracuda». Da quel successo sembrano essere passati secoli: nel 1981 nella città situata sull'omonimo lago si comprava di tutto, oggi è diventato un lusso, riservato ai pochi che hanno generatori elettrici, persino accendere la luce. «Sono le bellezze del ventennio chavista», racconta Omar Villegas, 70enne operaio in pensione di PDVSA, la compagnia petrolifera statale che negli anni '80 era modello di innovazione e che oggi, invece, è ridotta così male che tutti i suoi operai preferiscono licenziarsi e lasciare Maracaibo.

«Mio figlio è uno di questi continua Omar . Del resto cosa può fare un padre di famiglia che da ingegnere guadagna 3 dollari al mese se non scappare?». Lui è fuggito nella vicina Colombia, percorrendo centinaia di chilometri pur di arrivare nell'ultimo Paese sudamericano che, con Cile e Argentina, non ha ancora imposto freni all'esodo di milioni di venezuelani affamati. Tre stati governati dalla destra, a differenza di Ecuador e Perù, dove invece le restrizioni sono state poste e il centrosinistra è al governo.

Il lago di Maracaibo in realtà è un estuario con un nucleo di acqua salata e ne ha già viste tante - compreso un ponte Morandi del 1962 che è l'unico che lo attraversa - ma di assistere alla morte di un suo figlio al giorno per denutrizione negli ospedali non gli era mai successo. Una moria registrabile solo grazie al coraggio di medici eroici che pur di testimoniare con foto e resoconti alla stampa straniera (quella nazionale è ormai imbavagliata) rischiano la persecuzione degli sgherri del Sebin, i servizi segreti chavisti che impediscono a qualsiasi reporter l'ingresso nelle strutture sanitarie di Maracaibo. Neanche all'epoca dei conquistadores era andata così male ai locali ma, come racconta il 62enne Ricardo Hausmann, direttore del Centro Kennedy di Harvard nonché l'economista più brillante del Venezuela, «la crisi di Maracaibo è figlia del disastro di tutto un paese dove Maduro è riuscito, in soli cinque anni di presidenza, a dimezzare la produzione, a creare l'inflazione più alta di sempre - se continua così chiuderà l'anno a 44 milioni % - e a distruggere pure l'industria petrolifera con annessa produzione elettrica».

Cose mai accadute sul più grande lago del Sudamerica che ha un canale che lo comunica al mare delle Antille, permettendo un tempo l'ingresso delle grandi navi petroliere e una pesca sempre abbondante. Oggi non è più così e, per rendersene conto, basta mettersi in barca e immergere una mano in acqua. Il risultato è scioccante, come se l'avessimo messa in un barile di petrolio. «La mancanza dal 2013 di qualsiasi manutenzione dei 45mila chilometri di oleodotti sotto il lago di Maracaibo ha portato a perdite oramai enormi, che hanno ucciso il mio lavoro», spiega Doni, figlio di pescatori. Un disastro ambientale di dimensioni bibliche che il governo di Maduro cerca di nascondere non riparando gli oleodotti bucati ma gettando dei solventi tossici nel lago, con risultati ovviamente ancora peggiori per la salute, tanto dei pesci come di chi li mangia. Per non scrivere che da inizio 2018 i blackout sono in media di 14, 16 ore al giorno in tutta Maracaibo, ma a volte anche di «tre giorni di fila», spiega Johel Prieto, che di mestiere fa il macellaio e non nasconde di avere tritato carne marcia con altra più fresca per mascherare l'odore, vendendola a un prezzo di saldo. «Oggi in tutta Maracaibo non esiste più un macellaio in grado di garantire la qualità della sua carne», spiega Luna, vigilante in un parcheggio che sa di comperare «carne marcia da settimane» ma «mia moglie è fuggita in Colombia e io ho due figli da mantenere e non riuscivamo più a resistere alla fame».

E affamati sono anche gli indios che abitano la laguna di Sinamaica, a un'ora da Maracaibo, e le cui palafitte l'esploratore iberico Alonso de Ojeda osservò per primo ribattezzandole «Veneciola», ovvero «piccola Venezia», da cui l'origine del nome del Venezuela.

Neanche loro avrebbero immaginato che il chavismo sarebbe stato peggio dei conquistadores.

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