Politica

Addio al governo più pazzo del mondo

Era l’esecutivo più numeroso della storia repubblicana: 103 persone. Uno sproposito se rapportati ai 7sette ministri del primo gabinetto Cavour o ai 59 di De Gasperi. In Francia Sarkozy guida una squadra di solo 31 persone. E pensare che proprio il giorno dell’annuncio del taglio del 10% delle spese degli uffici il Prof aveva nominato tre nuovi sottosegretari

Addio al governo più pazzo del mondo

Difficile metterli tutti nella foto ricordo, come nell’ultimo giorno di scuola. Risulterebbero figure grigie, espressioni malinconiche, smorfie spossate. In cento e tre, alla ricerca di un posto perduto, poltrona, sedia, strapuntino, l’importante è che si trattasse, si tratti di governo. Venticinque ministri, settantasette tra vice e sottosegretari, più un uomo solo al comando, la sua maglia è biancoceleste tendente al rosso, il suo nome è Romano Prodi.

Il parallelo con l’epica ciclistica è doveroso, considerato l’hobby amatoriale del dimissionario premier. Lui ha voluto la bicicletta e, dunque, ha pedalato. Seguito dal gruppo non proprio compatto, sfiancato sotto lo striscione del penultimo chilometro. Comunque fiero di aver stabilito il nuovo record del giro, in centodue per disfare l’Italia, meglio di Andreotti VII che si era fermato a centouno, non vorrei nemmeno accennare ai sette ministri in tutto del primo governo Cavour, Camillo Benso, il conte, nemmeno ai diciassette più quarantadue sottosegretari di Alcide De Gasperi, robetta da dilettanti allo sbaraglio in confronto all’armata prodiana che è riuscito anche a smentire se stesso e i suoi sodali in corsa.

Volete un esempio? Una conferma? Una notizia già data ma da riproporre a babbo morto? Proprio nel giorno dell’annuncio di un taglio (10 per cento) rigoroso delle spese degli uffici dei ministri, il succitato Prodi Romano assunse tre nuovi sottosegretari, al secolo Raffaele Gentile ai Trasporti, dove il vice del ministro Bianchi, Cesare de Piccoli, aveva sicuramente bisogno di un supporto oltre all’Andrea Annunziata. Poi toccò a Nicola Sartor completare i magnifici dell’Economia e delle Finanze di Tommaso Padoa-Schioppa e, ultimo tra i canneti delle Politiche agricole, alimentari e forestali, venne chiamato a dare il proprio contributo essenziale Giovanni-Gianni Mongiello, un foggiano non propriamente illustre. La firma dei tre avvenne in gran fretta, anche perché il lavoro era tanto e i badanti pochi, ma il vicecapogruppo dell’Italia dei Valori, Evangelisti, sollevò immediatamente il problema, sorpreso di vedere aumentare il numero dei presenti nella foto ricordo e nei conti del Palazzo. Del resto lo stesso Di Pietro, ai tempi del governo Berlusconi, aveva censurato la tendenza del cavaliere a «soddisfare gli appetiti di partiti e correnti, è stata stravolta la riforma Bassanini aumentando il numero dei ministeri». Con lui si erano prontamente schierati Massimo D’Alema e Francesco Rutelli che non vedeva l’ora di rinfacciare al premier, tra le altre mille cosucce, la solita fame di potere. Il futuro ministro degli Affari esteri si era presentato nel bianco salotto di Vespa sventolando il programma politico degli avversari: «Guardate qui, al punto nove, ridurre i ministeri e i ministri» ridevano anche i suoi baffetti brizzolati e gli occhi brillavano, non sapendo, ahilui, che il suo datore di lavoro successivo avrebbe fatto di peggio, sòrbole. Parole nel vento della politica, slogan preelettorali, repertorio di questo Paese impossibile, con cinquecentoquarantasettemila (in cifra 547.000) auto pubbliche-blu mentre la Francia, in confronto, va a piedi, il parco vetture degli uomini di governo e affini si ferma a sessantacinquemila, in Germania ancora meno, cinquantaquattromila.

Ho detto Francia? Nicolas Sarkozy va al sodo, non soltanto con le fidanzate, mogli, amanti, insomma donne, ma soprattutto con la politica: il suo governo prevede quindici ministri, altrettanti segretari di Stato e un alto commissario, stop, rien ne va plus, quasi un quarto del gruppo Prodi, eppure la France non è per pochi intimi. Meglio restare nei territori nostrani, sorge adesso il problema più delicato, questi cento e due più uno tengono famiglia e vorrebbero tanto smentire le parole di Luca Cordero di Montezemolo. Che cosa ha detto il presidente di Confindustria? «Le aziende pubbliche sono discariche di politici trombati». Molto probabilmente Montezemolo si è portato avanti con il lavoro. Ieri Paolo Cento, il curvaiolo (in senso calcistico) con più presenze di Totti in tivù e radio, ha annunciato con gioia, sua e nostra, che tornerà in strada, da uomo libero, finalmente, a far cortei e manifestazioni, perché in fondo la politica questa è per chi tra le cose intelligenti ne aveva inserite anche una di questo tipo: «Gli espropri non sono una rapina», può darsi, dipende da che parte si sta durante l’evento.

C’è da chiedersi come dovrà correggere il proprio curriculum Pietro Colonnella, sottosegretario degli Affari Regionali, ministero della signora Lanzillotta-Bassanini? Qualcosa ha già provveduto a tagliare del poema ma sono rimasti in bacheca la presidenza dell’Istituto Consortile Musicale Gaspare Spontini e il contributo ad affermare la provincia di Ascoli Piceno come prima provincia turistica delle Marche. Va da sé che anche Donatella Linguiti, sottosegretario di Barbara Pollastrini alle Pari Opportunità, potrà dedicarsi in toto al coordinamento per lo sviluppo e la cooperazione nell’Anatolia dell’est oltre che ai congressi nazionali sulla questione curda che l’hanno vista protagonista in passato. Segnalo, ad esempio, come viceministro dello Sviluppo economico Sergio D’Antoni, lo ricordate, no? Si era affiancato, dopo l’era sindacale, a Pippo Baudo e Katia Ricciarelli nell’avventura del partito di Democrazia Europea risoltosi malinconicamente dopo due anni di sogni e progetti, con una transumanza verso la Casa delle Libertà e quindi un opportuno e veloce salto in lungo verso l’Ulivo.

Interessante anche il futuro prossimo di Giorgio Calò, assistente di Paolo Gentiloni al ministero delle Comunicazioni, ex dirigente amministrativo della Total nei favolosi anni Sessanta ma soprattutto sondaggista vicino ad Antonio Di Pietro. Mai come in queste ore un controllo dell’opinione pubblica può essere importante, se non decisivo, più decisivo di un sottosegretariato. Cosa che dovrebbe riguardare anche Vittorio Bobo Craxi. Meglio stare lontano dal ministero degli Esteri, non gli sono bastate un paio di gaffes, quella sugli eletti all’estero che non contano niente e l’altra su Israele che occupa una parte del Libano (sarebbe il Golan siriano) e dunque gli Hezbollah hanno rapito un soldato israeliano (i rapiti sarebbero due e otto massacrati). Ci sono poi quelli che dicono ma non dicono, insinuano ma non denunciano e dunque si rende necessario un decoder per comprendere il messaggio.

Prendete, così a caso, uno che è stato il punto di riferimento dell’Istruzione pubblica, al secolo il ministro Giuseppe Fioroni. Così ha detto: «Finché stai con i frati zappi l’orto, ma da ora in poi potrò dire quello che penso». Ma come? Ci avevano detto che era stato allontanato il regime, che erano finalmente tornati liberi e, invece, scopriamo oggi che trattavasi di un manipolo di zappatori, roba da far venire la pelle d’oca all’ei fu Mario Merola. E Bianchi, che ha guidato i Trasporti, nel senso buono? Romantico, a tratti dolce: «Stavo così bene in questo governo che cominciavamo a realizzare alcuni progetti...», a parte la lingua italiana da -5 punti sulla patente, hanno fatto uscire il ministro al casello di Ceppaloni, non previsto né programmato sul suo navigatore. Tornano alla mente le parole della biondissima Giovanna Melandri, trafelata quel tanto che non guasta, raggiante e danzante come nelle sue migliori notti africane: «Loro? Sono vittime delle loro congetture elettorali. Noi? Governeremo anche con questa maggioranza in Senato, sì, credo proprio di sì». Pronostico sbagliato, non male per una che si sarebbe occupata anche di sport. Del Senato e di quell’equilibrio di voti da precipizio, pochi avevano voglia di dire e, appunto, di sbilanciarsi.

Marco Minniti metteva la palla in calcio d’angolo: «Vediamo, vediamo»; D’Alema si rifugiava nel risultato delle partite fuori casa: «Aspettiamo i voti degli italiani all’estero». E nella piazza Santi Apostoli di Roma, Romano Prodi sbucava sul palco saltellando come Jovanotti prima del concerto o di un bambino vittorioso al Subbuteo, sventolando la bandiera d’Italia e d’Europa, azzardando una frase storica ideale per qualunque viaggio, sia in partenza sia in arrivo: «Oggi si volta pagina». Fatto. Già fatto? Restano le fotografie del tempo tra lacrime e cortei, coriandoli bagnati, la festa è finita, gli amici se ne vanno. Intanto cresce l’attesa per le prossime uscite della pin up Daniela Melchiorre, sottosegretaria alla Giustizia, donna di clamore negli abiti scollati e nei monili luccicanti, messa all’indice dal suo referente Mastella, niente affatto clemente dopo che la Melchiorre aveva rivelato i veri numeri degli ex carcerati, i privilegiati dall’indulto, diversi, in numero ben superiore cioè, da quelli annunciati dal ministro.

Ci sarà tempo per sistemarli e sistemarsi, si prevedono code gigantesche e occhio alle parole di Montezemolo, le discariche sono state appena riaperte, l’emergenza rifiuti sta per spostarsi da Napoli verso la capitale.

Commenti