Addio a Leyla Gencer, ultima regina dell’opera

Leyla Gencer e morta venerdì notte nella sua casa di Milano, ma era da tempo nella storia. Quella passata, delle regine mitiche, come Anna Bolena, Maria Stuarda, Elisabetta, Caterina Cornaro, protese alla gloria, votate al sacrificio, fatte rivivere di forza e consegnate a noi, infelici ma piene di bellezza e amore, anime nude nella furia delle parole scagliate o nella tenerezza di un filo di voce, che pareva Donizetti scrivesse per lei; o Alcesti che faceva piangere gli artisti del coro, come se Gluck d’improvviso avesse rivelato la più nascosta passione. Alla fine la gente inneggiava alla grandezza di lei e del teatro d’opera, alla Scala l’aspettava all’uscita sotto il portico, a Verona l’accompagnava per la piazza dell’Arena.
Quella presente. Non c’erano giorni in cui non ricevesse telefonate o scritti di qualcuno, giovane, che l’aveva scoperta, per esempio in qualche vecchio «disco pirata», come si chiavamano le registrazioni furtive catturate precariamente nei suoi famosi spettacoli, diventato di culto, o in qualche «blog» dove era presentata come segno di che cosa possa essere dal vero il melodramma.
Quella futura della nostra memoria e degli studi per ricostruirne la carriera, dalla Turchia nativa ai teatri d’Europa e del mondo, cercando le asperità e le dolcezze dei suoi personaggi: colta per le letture, per le amicizie con i grandi della letteratura e del teatro, da Bacchelli a Visconti, e con un fondo selvaggio nella sua natura di cui era fiera: «Io mi sento una pastora dell’Anatolia».
Una vita di lotte per portare la verità del teatro musicale contro la facile acquiescenza ai modelli sicuri, alla appagante e ingannevole superficialità. La ricerca accurata coi maestri, da De Sabata a Karajan, da Serafin a Muti. Gianandrea Gavazzeni con lei poté creare la Lady Macbeth più inquietante che si sia mai sentita. E in scena, De Lullo o Pizzi le aprivano scenari meravigliosi e la sentivano ogni giorno crescere.
Con la storia non era mai in pace, però. Si infuriava contro la mediocrità. Una volta, a una cena ufficiale, non so chi le domandò perché lei e gli artisti fossero sempre eccessivi. Gli rispose fulminea: «Perché altrimenti in scena saremmo noiosi come voi nella vita». Dirigeva da molti anni l’Accademia di canto della Scala, affascinando, spaventando, esaltando, amando, costruendo i giovani artisti. Ancora poche settimane fa, fece sentire chi era nel ridotto della Scala. Eravamo venuti a festeggiarla in tanti, per il compiersi dei 50 anni nel teatro, che le aveva dedicato un libro nuovo, curato da Franca Cella, e un incontro affettuoso. Stava già male, di salute.

Ma alla fine la sua voce si alzò accorata e perentoria: voi artisti giovani, diceva, dovete amare tutto quello che studiate e che fate. Poi, forte, come un ordine: «E anche voi tutti, amate la vostra vita, amate quello che fate fino in fondo, altrimenti siete niente». Ci diceva così in quale modo dovremo sempre manifestarle la nostra riconoscenza.

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