Il pianista Oscar Peterson, leggendario per tecnica, bellezza del suono e fraseggio, è morto l'antivigilia di Natale a Toronto, Canada. Aveva 82 anni. Negli ultimi anni era diventato enorme e si muoveva con fatica. Dei vecchi tempi gli erano rimasti gli occhi buoni che tradivano l'insicurezza interiore, la facilità alle depressioni, e fino al 1993 le mani meravigliose, agilissime, capaci di coprire tredici tasti del pianoforte. Nel maggio di quell'anno un ictus gli offese la mano sinistra, riducendola a un semplice appoggio per qualche nota o accordo. Ma, sostenevano molti critici, a Peterson bastava una mano sola per surclassare tutti i colleghi.
Ciò malgrado, la musica non era venuta a lui come un dono di natura. Fu il risultato di uno studio tenace del piano classico, per molte ore al giorno, al quale si costrinse fin dall'infanzia. A 14 anni (quindi nel 1939: Oscar Emmanuel Peterson nasce a Montreal il 15 agosto 1925) ha il primo importante incontro musicale, quello con il pianista Art Tatum: «È il mio maestro e amico - ha sempre ripetuto -, la persona migliore che io abbia conosciuto, il pianista più grande dell'intero arco storico del jazz».
Sapeva di continuare il messaggio stilistico di Tatum e ne era orgoglioso. Si riteneva un pianista tradizionale, sebbene si fosse affacciato alla ribalta con il jazz moderno nella seconda metà degli anni Quaranta. Gli piaceva che il contenuto emozionale si coniugasse con la preparazione formale, con il bel suono, le forme giuste e le proporzioni definite. Per conseguenza non amava né Thelonious Monk né Cecil Taylor. Adorava invece Charlie Parker, senza notare di contraddirsi. Lo definiva «un genio musicale, ma assurdo come uomo: da un lato l'amore per l'arte e per la vita, dall'altro la droga e l'autodistruzione».
L'altro incontro fondamentale di Peterson è quello con Norman Granz, il principe degli impresari di jazz, che lo scopre per caso nel 1949 ascoltandolo dalla radio di bordo di un taxi. Da quel momento la carriera e la fama di Peterson sono assicurate. Il rovescio della medaglia sarà un rapporto di dipendenza da Granz, personaggio autoritario che, legando a doppio filo il magico virtuoso alle proprie iniziative concertistiche e discografiche, compenserà in parte la sua insicurezza.
La prima scrittura di Peterson è con il gruppo del Jazz at the Philharmonic gestito da Granz; poi il pianista riunisce un trio con Barney Kessel chitarra e Ray Brown contrabbasso. Suona fra gli altri con Ella Fitzgerald, Charlie Parker, Lester Young, Billie Holiday, Dizzy Gillespie, Sarah Vaughan. I dischi a suo nome diventano innumerevoli e i concerti si estendono a tutto il mondo. La sua formazione preferita è il trio con il contrabbasso e la batteria, o il quartetto se c'è una chitarra, ma tiene anche concerti trionfali di pianoforte solo.
Accanto a Peterson, per lunghi anni, si trovano soprattutto il sommo contrabbassista danese Niels Pedersen, e il chitarrista Joe Pass che la morte gli toglie nel 1994, mentre cambiano spesso i batteristi. Dopo il malanno del 1993 la collaborazione di Pedersen diventa essenziale per il pianista: il suono e il ritmo del contrabbasso quasi compensano le carenze della mano sinistra. Nel 1997 si aggiunge al gruppo il chitarrista svedese Ulf Wakenius, Peterson si sottopone a continue cure e sembra che il peggio sia passato. Ma la cattiva sorte è ancora in agguato. Nel 2003 qualcosa si guasta nell'equilibrio psicofisico di Pedersen, e il pianista deve rinunciare al suo alter ego che si spegne nel maggio 2005. Due mesi dopo Peterson, per la prima e l'ultima volta, è osannato all'Umbria Jazz.
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