Fine di una storia. Da oggi si va e si viene, si entra e si esce dalla Svizzera, senza controlli sistematici di passaporti e documenti, se non in casi particolari (figuri sospetti, segnalazioni e simili). La Confederazione aderisce al trattato di Schengen ma resta ancora fuori dall’Unione doganale, i poliziotti devono trovare un altro lavoro, i finanzieri restano sul posto, pronti a intervenire sul flusso delle merci, come del resto fanno nel resto d’Europa, Italia compresa. Si smaltiscono le code automobilistiche, vige ancora e sempre la vignette, il tagliando da applicare al parabrezza della vettura ma ormai siamo più che vicini di casa, Erba non c’entra. Il confine con il nostro Paese misura 741,3 chilometri, il più lungo rispetto ai 571,8 con la frontiera francese, i 362,5 con la Germania, i 165,1 con l’Austria e i 41,1 con il Liechtenstein. Se dico Fornasette che rispondete? E Brogeda, Clivio, Gaggiolo Stabio, Bizzarone, Drezzo? Nomi da sette verticale della Settimana Enigmistica, valichi e ultime stazioni prima dell’«estero».
Schengen vuol dire fiducia anche se il contrabbando continua, sotto forme diverse e con prodotti differenti rispetto alla storia: lingotti d’oro, farmaci e droghe, olio da riscaldamento. Ho scritto apposta storia. Cantine di Gandria è un presepe sul lago di Lugano. Ci si può arrivare soltanto in traghetto o a piedi. Ci stava la caserma delle guardie svizzere di confine, l’hanno trasformata in museo del contrabbando. Là dove c’erano topi e pidocchi, un bell’ambientino per i finanzieri che ci vivevano, oggi i turisti riscoprono pagine improbabili. A parte la messa in scena, abbastanza agghiacciante per i manichini e l’arredo, a Gandria sono esposte le merci di contrabbando classiche, sacchi di juta contenenti riso o farina, zucchero, poi scarpe con doppio fondo nei tacchi, abiti che occultavano droghe nelle cuciture, tre piani affacciati sul lago, cronaca e memoria di ciò che fu e che resiste. Esistono musei analoghi anche in Italia, un paio, a Macugnaga e a Erbonne, diario per rispogliare pagine anche drammatiche, le morti sotto le valanghe, l’imbarcazione dei doganieri affondata nel lago, furono dodici i morti.
Era il tempo degli spalloni, i contrabbandieri che valicavano la frontiera bucando la ramina, la rete in fil di ferro o di rame, era il tempo dei passatori che aiutavano i perseguitati politici, gli ebrei a raggiungere la Svizzera, erano gli scafisti a piedi, dell’altro secolo; era il tempo di una sorta di disfida tra i finanzieri italiani e i colleghi elvetici e, insieme, contro i sfrusaduu gli sfruttatori, i contrabbandieri come venivano chiamati nel dialetto della Val d’Intelvi, mentre le guardie di finanza erano i burlanda. Oltre alle bricolle, i sacchi nei quali veniva trasportata la merce, c’era il pellegrinaggio normale, in auto o torpedone, gita romantica, infantile quasi. La Svissera, con due esse, il Paese della croce bianca su sfondo rosso, la Disneyland del ventesimo secolo, banche, cioccolato, dadi da brodo, sigarette. Sentivi profumo di Toblerone e di Knorr, la pubblicità è l’anima anche degli articoli giornalistici, fumavi king size e improbabili sigari stretti e dal fogliame attorcigliato, cercavi tutto quello che sfuggiva alle tasse nostrane.
Un aneddoto può scaldare il cuore: la gita oltre confine era stata bella, la giornata fredda ma di sole, zia e nonna avevano fatto il pieno di banane, pluritassate in Italia, merce a basso prezzo nella Confederazione. Arrivati alla dogana il finanziere con cappello tipico a forma di tazzone rovesciato, chiese alle due signore di depositare il casco di banane. La reazione fu immediata: «Dài Carla, mangèmi nun sedenò i sequestrén e ie mangen lor!», traduco per i foresti di Lombardia: mangiamole noi altrimenti, una volta sequestrate questi qui se le pappano loro. Fu il segnale dell’attacco, alle banane, non alle guardie.
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