Se ne è andato in the Midnight hour, nel mezzo della notte, come dice il titolo della sua canzone più famosa, un inno di quel rhythm'n'soul che negli anni Sessanta lo trasformò in una leggenda della musica. Wilson Pickett è morto così, a 64 anni, d'infarto in un ospedale a due passi dalla sua casa in Virginia, mentre la sua compagna gli era a fianco e i medici allargavano le braccia. Un colpo secco. E un colpo secco era stata anche la carriera di questo prodigio dell'Alabama, nato poverissimo nel 1941 e diventato a braccetto di Aretha Franklin e Otis Redding lo «sdoganatore» della musica nera, l'artista che riuscì a portare i toni caldi del soul, le inflessioni ritmate e sanguigne del rhythm'n'blues anche nelle classifiche bianche, nelle liste di Billboard che storicamente erano riservate al pop dai capelli biondi o agli accenti californiani e newyorchesi che si ballavano nei lounge. E forse anche a questo pensarono John Belushi e Dan Aykroyd quando pretesero - perché si dice che fu proprio così: pretesero - di avere Everybody needs somebody nella colonna sonora di Blues Brothers, un brano che racchiude nel testo semplice, nella partitura tesa e ritmata il messaggio di una frangia di musica che ha cambiato il mondo americano: l'amore, la comprensione prima di tutto, il gioioso scambiarsi dei sentimenti a prescindere dal colore della pelle. Perciò dire Wilson Pickett negli States significava dare una scossa musicale alle parole di Martin Luther King, a quello slancio utopista e pieno di futuro che si respirava ai margini della società americana. Certo, quando questo irascibile ragazzetto innamorato dei suoi polmoni iniziò a cantare tutto era molto ma molto più sfocato. E lui, che era così malmostoso da farsi soprannominare Wicked Pickett (il cattivo Pickett), iniziò come tutti i neri, cantando gospel. Solo a diciott'anni, nel 1959, registrò con i Falcons il pezzo che gli cambiò la vita, You're so fine. Se ne accorsero i discografici, se ne accorse il pubblico. Il cattivo Pickett - che in realtà era un orso solitario e buono, padre di quattro figli - diventò quello che gli impresari chiamano una «attraction», una garanzia per riempire le sale da concerto. E i brani arrivarono uno dopo l'altro, da Mustang Sally (che è poi stata cantata da decine di altre voci e ripresa anche dalla serie discografica The commitments) a Land of 1000 dances, che si è rivelato il suo più grande successo pop nelle classifiche americane, quelle ancora bianche. Tutta roba degli anni Sessanta, quando a Wilson Pickett e Aretha Franklin rispondevano rabbiosi i Doors o i Grateful Dead. In questo scontro epocale Wilson Pickett perse le sue piume da pioniere e si ritrovò confinato a quello che oggi si chiama il «vintage». Nostalgia sì, ma di classe cristallina.
Intanto che negli States il vento cambiava, il «wicked», il cantante soul modesto e riservato venne in Europa, venne addirittura al Festival di Sanremo più obliquo di sempre, quello del 1968. Fausto Leali e Wilson Pickett: ma Deborah non era una grande canzone. L'anno dopo di nuovo, e stavolta i nomi sono da lasciar muti: lui con Lucio Battisti a cantare Un'avventura scritta da Mogol. Il risultato fu scarso anche stavolta, Battisti aspettava di crescere ancora e il re del soul doveva fare i conti con la nuova realtà. Il suo ultimo brano da juke box fu del 1972. Poi testa alta e basta. Qualche collaborazione prestigiosa, come il duetto sul palco con Bruce Springsteen, che gli deve molto specialmente ora, nella sua musica da cinquantenne.
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