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Affari, monumenti e nuovo look: dall'Inghilterra al Giappone 250 anni di eredità universale

L'Esposizione lascia un segno indelebile nelle città che la ospitano. A Chicago negli anni Trenta la Fiera chiuse l'era della depressione. E con la kermesse del '58 Bruxelles diventò capitale europea

Affari, monumenti e nuovo look: dall'Inghilterra al Giappone 250 anni di eredità universale

Il 27 maggio 1933, sui muri del garage al civico 2122 di North Clark Street, a Chicago, non restava più traccia del sangue della strage di San Valentino di quattro anni prima. Quanto al mandante della mattanza, il pericolo numero uno della città, Alphonse Gabriel Capone, dal giugno del ’31 era ormai un innocuo inquilino del carcere di Alcatraz. Il peggio era passato? Per nulla. Perché Chicago, che il detto popolare ha definito «la città ventosa» e il poeta Carl Sandburg quella «dalle spalle larghe», non poteva ancora permettersi di tirare un respiro di sollievo. E con lei, l’intera America.
Eppure, quella mattina del 27 maggio 1933, perfino le masse impoverite dalla depressione iniziata il 29 ottobre del ’29 - e ancora ben lontana dal concludersi - avevano un motivo quantomeno per sperare. Bastava pagare i 50 cent di un biglietto d’ingresso.
La speranza era l’esorcismo positivo della Chicago World’s Fair, un’esplosione di colori vivaci da contrapporre a quel nero giovedì della Borsa. Un’expo mondiale voluta per celebrare i cent’anni della metropoli, ma soprattutto - auspicarono i promotori - «per mostrare alle future generazioni le forze che hanno costruito la Nazione». E funzionò, senza sfilare nemmeno un cent di tasse dalle tasche dei contribuenti. Tutto fu finanziato con un’emissione di certificati aurei per dieci milioni di dollari.
Di simili eredità, (nella foto: la Biosfera dell'Expo di Montereal in Canada, 1967) che possono essere immateriali perché scolpite nei valori - dall’ottimistico orgoglio Usa all’inaffondabile grandeur francese, dall’essenziale pragmatismo tedesco alla micropignoleria giapponese - oppure tangibili perché rimaste lì a futura memoria, fatte come sono di metallo o di cemento, è del resto costellata la storia delle grandi esposizioni mondiali e universali e delle città che le hanno ospitate. A partire dalla prima, quella di Londra.
Correva l’anno 1756. E certo non fu un caso. Perché dopo quelli bui, interminabili e perfino portatori di peste del medioevo, fu proprio il «secolo dei lumi», galvanizzato dai vagiti dell’industrializzazione e stimolato dalle prime scoperte scientifiche, a dare il via alle rassegne universali. E questo, pensiamoci, in anni in cui il solo spostarsi da un Paese all’altro, restando anche soltanto in Europa, era ancora degno di essere definito «un viaggio». E da quell’evento londinese era poi scaturita una frenesia irrefrenabile, un moto perpetuo. Dapprima entro i confini del vecchio mondo, poi in quello chiamato nuovo, e infine in quello nuovissimo, con le rassegne australiane e neozelandesi. Proprio fin laggiù, quando ancora non era iniziato il Novecento.
Questa ottimistica rincorsa al progresso, tanto ottimistica che più di una volta ha portato a precederlo, oltre a donare un’incalcolabile forza propulsiva alle città, ai Paesi e alle economie che ci hanno voluto credere, ha lasciato anche simboli tangibili. Lo rimane di Londra, per esempio, l’etereo Crystal Palace edificato per l’esposizione del 1851; lo rimane in quanto fonte di ispirazione per l’architettura postmoderna, anche dopo la sua distruzione in un incendio, nel 1936. È un simbolo di Roma il quartiere Eur, sorto per ospitare un’expo mai svoltasi per motivi bellici, quella del 1942. Mentre dell’esposizione milanese del 1906, quella che in una stampa dell’epoca ci regala l’immagine di una Milano incredibile, dove dominavano ancora gli alberi e il verde, sono rimaste le strutture della mitica Campionaria: uno dei motori, oltre che una delle icone in bianco e nero, di quella che sarebbe stata la grande ripresa economica italiana. Così, simbolo di Parigi è la Tour Eiffel, spuntata nel cielo della capitale francese in occasione dell’expo del 1900 e trasformatasi nella gigantesca e puntuta calamita di 50 milioni di visitatori (e di quanti, da allora fino a oggi?). Questo proprio mentre nel ventre della città iniziava a correre una sferragliante talpa chiamata metrò. Per non dire di altre opere completate per l’occasione: dalla Gare d’Orsay a quella de Lyon, dal ponte Alessandro III al Grand Palais. E proprio negli stessi mesi la capitale restava a bocca aperta davanti all’inedita magia - il cinema - dei fratelli Lumière.
Quattro anni dopo e altro continente. A Saint Louis, nel Missouri, David R. Francis inaugurava la fiera da lui presieduta e dedicata al «Lousiana Purchase», ovvero allo sbalorditivo riacquisto in contanti, dai francesi - invitati di conseguenza a togliersi di torno - del grande Stato del Sud. Da allora non più colonia, ma un pezzo d’America. «Aprite questi cancelli, spalancateli!», invocò Francis. Gli diedero retta 20 milioni di visitatori: un fatturato di 25 milioni di dollari per una manifestazione costata 20. Alla quale seguì, nella stessa città, amplificando i benefici, anche l’Olimpiade di quell’anno, voluta con grande sportività proprio a Saint Louis - e proprio in omaggio a quello storico riacquisto - dal barone francese Pierre de Coubertin. Come direbbero loro? Chapeau!
Tornando in Europa, sicuramente meno bello e conosciuto della Tour Eiffel è l’Atomium di Bruxelles, simbolo appunto dell’atomo e dell’esposizione belga del 1958. Un’imponente opera architettonica disegnata da André Waterkeyn e alla cui realizzazione hanno lavorato per tre anni 15mila operai. Il suo destino sarebbe stato quello di finire smantellato a fine expo. Invece è ancora lì, «palluto» simbolo di una città che a dire il vero non ha fatto mai molto per farsi ricordare.

Eppure l’Atomium ha resistito: meno simbolo dei cioccolatini Godiva, ma senz’altro più di quel «palloso» monumento alla burocrazia che è il falansterio dell’Unione europea.

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