AIUTI ALL'AUTO - Non esiste alcuna alternativa

Ad ogni liberista che si rispetti il solo sentir parlare di aiuti statali alla Fiat risulta piacevole come un colpo basso di pugilato, tuttavia i tempi stanno cambiando così velocemente che forse vale la pena di affrontare la questione senza pregiudizi ideologici. In condizioni normali l’aiuto statale ad un’azienda in difficoltà cronica tende a generare mostri. Anche per le imprese dovrebbe valere il principio della selezione naturale. Quando invece passa l’idea che «tanto alla fine paga pantalone», di solito si tende ad aprire la strada a voragini di inefficienza e spreco, di cui ad esempio la vecchia Alitalia è stata per anni un simbolo eloquente. Altrettanto pericolosa è la tentazione di tenere in vita imprese che offrono un prodotto ormai superato: adottando questo principio adesso ci sarebbero ancora fabbriche di locomotive a vapore o di televisori in bianco e nero sovvenzionate dallo Stato per tutelarne i lavoratori. In entrambi i casi la malapianta dell’assistenzialismo statale inibisce lo sviluppo, penalizza le imprese sane e in ultimo impoverisce irreversibilmente le stesse finanze dello Stato, sprecate in impieghi improduttivi.
Partendo da queste premesse teoriche dovrebbe però già apparire chiaro che la questione degli aiuti statali alla Fiat non è da bocciare a priori: non si tratta infatti di un’azienda in difficoltà per recenti demeriti propri (in passato la storia era diversa) all’interno di un settore che internazionalmente prospera, anzi, se paragonata ai disastri delle grandi case automobilistiche americane la Fiat rischia di apparire come un modello da seguire ed il possibile accordo con Chrysler ne è la prova. Persino le case tedesche stanno sperimentando livelli di tensione senza precedenti e, considerato che Fiat non ha più il consueto «secondo aiuto» derivante dalla svalutazione della lira, che consentiva ai suoi listini di rimanere competitivi con la produzione germanica appesantita dal fortissimo marco, il semplice riuscire a tenere il passo incrementando le quote di mercato rappresenta un risultato di rilievo. Non si può nemmeno dire che l’automobile sia ormai un prodotto superato: l’attuale crisi non è certo dovuta alla comparsa di qualche nuovo mezzo di trasporto che ha reso le normali vetture obsolete; le radici del problema affondano molto semplicemente in una «gelata» dei consumi che si è riflessa di primo acchito su di un bene costoso e dall’acquisto rimandabile come l’auto. Il fatto che si tratti di un’industria per sua natura dagli alti costi fissi e scarsamente flessibile fa il resto e lo rende un settore differente rispetto ad altri che pure potrebbero essere impattati dalla crisi. Vi sono quindi momenti in cui l’aiuto statale può servire, sino a diventare quasi auspicabile, e questo potrebbe essere il caso della Fiat oggi. Una cosa però dovrebbe essere perseguita a tutti i costi: un’armonizzazione degli interventi su base internazionale, altrimenti se si cede alla tentazione di approfittare del momentaneo stop alle regole della concorrenza per dare «spintarelle» puramente finanziarie alla fabbrica nazionale, sperando che guadagni posizioni sulle rivali, potrebbe essere l’inizio del disastro, sia per chi partecipi al gioco sia per il malaugurato «virtuoso» che se ne chiamasse fuori.

In certe condizioni estreme aiutare costa molto meno che fare i puristi, chi ha scelto di far fallire la banca Lehman Brothers se ne è reso brutalmente conto subito dopo. Per l’Italia non sostenere Fiat (e di riflesso il suo enorme indotto), quanto meno in misura coordinata ed equivalente alle altre case automobilistiche internazionali, è un lusso che difficilmente potremo concederci.

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