«Ma Allah è più potente della Moratti»

MilanoOre 14 di un sabato pomeriggio che promette pioggia senza mantenerla. In questa landa desolata che è Cascina Gobba - periferia est di Milano, stretta tra il Lambro, la tangenziale, la metropolitana - il muezzin elettrico fa sentire la sua voce. Dalla vecchia antenna Enel trasformata in minareto metropolitano, non partono preghiere ma, ripetuta, volta su volta, in continuazione, solo l’invocazione: «Allah akbar», Dio è grande.
Sotto l’antenna, tre piccoli fabbricati. Uno cadente, gli altri ristrutturati di fresco. Sulla porta, l’insegna dice semplicemente «Al Waqf Al Islami - Ente di gestione dei beni islamici in Italia». Un paio di auto, due Transit malconci con targa bulgara. Il primo essere umano che si materializza, un giovane arabo che sbuca da una Giulietta, non ha lo sguardo amichevole. «Che fai qui, perché ti sei fermato, cosa vuoi?». Ma poi dalla moschea appaiono altri uomini, e la conversazione si fa più confortevole anche se assume toni surreali.
Dicono che qui avete trasformato una vecchia antenna in una specie di minareto. «Antenna? Quale antenna?». Beh, quella che c’è lì dietro, no? «Ah, c’è un antenna. Comunque non la usiamo. Ci piacerebbe avere un impianto così, e inshallah, magari un giorno ce la faremo. Per adesso abbiamo solo degli altoparlanti all’interno, che usiamo quando c’è troppa folla, per far sentire meglio la preghiera a tutti».
Il fatto che gli altoparlanti piazzati in vetta al traliccio abbiano appena smesso di lanciare le invocazioni all’Altissimo appare del tutto irrilevante. E sì che ci sarebbe poco da nascondere: la casa più vicina è a centinaia di metri, l’ospedale San Raffaele non è a tiro di decibel, Milano Due nemmeno, insomma il muezzin elettrico non dà acusticamente fastidio a nessuno. Ma pesano ormai diffidenze, qualche rancore e una palpabile decisione di farsi i fatti propri, impiantando strutture di culto con annessi e connessi senza trattare con la politica italiana. «In viale Jenner hanno proibito la preghiera del venerdì perché dava fastidio sui marciapiedi. Il Palasharp, dove andiamo adesso a pregare, dicono che verrà abbattuto. Ma anche se dovessero chiudere tutta Milano noi un posto per pregare lo troveremo sempre, perché siamo nelle mani di Allah, e Allah è più potente della Moratti».
La moschea è ai numeri 366, 368 e 370 di viale Padova, una vecchia struttura Enel, comprata nel 2005 per un milione e mezzo e trasformata in luogo di culto a costo di scontri furibondi all’interno della stessa comunità islamica: con il giordano Asafa Mahomoud che ha denunciato i siriani Mohamed Ghrewati Baha’el din e Mohamed Maher Kabakebbji, uomini a Milano dell’Ucoii, la struttura vicina ai Fratelli Musulmani. Il Centro di cultura islamica - che sta anch’esso su viale Padova, ma più verso il centro città - si è spaccato. E dietro ci si intuiscono scelte politiche diverse, radicalità più o meno marcate, ma anche contrapposizioni più venali sulla gestione della cassa della Al Waqf Al Islami, la fondazione che gestisce i proventi della questua e soprattutto i finanziamenti che vengono dall’estero.
Ma ora, a un anno dalla apertura, la moschea funziona a pieno ritmo. «É una moschea - spiegano gli uomini che le sostano davanti - aperta a tutti anche agli italiano ai cristiani, a chi vuole capire la nostra cultura e la nostra religione». E infatti, con mossa un po’ piaciona, l’hanno intitolata a Maria, che l’Islam venera come madre di un profeta. Accanto alla moschea c’è la scuola per i bambini, imbiancata e linda. Non è una scuola coranica ma una specie di doposcuola, «insegniamo ai bambini a parlare arabo, insegniamo la nostra religione, ma non ci sostituiamo alla scuola italiana, loro vengono qui soprattutto nei fine settimana, a studiare e a giocare». Ed eccoli, i bambini, che sciamano dai corridoi e dalle aule verso il cortile polveroso, inseguiti dalle donne con il velo.

Poi succede qualcosa - o forse è solo un equivoco, un falso allarme - ma una delle maestre grida: «Ci sono gli zingari, venite dentro!». E i bambini spalancano gli occhi e spaventati corrono al riparo: perché, come direbbe Troisi, siamo tutti gli stranieri di qualcun altro.

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