Cultura e Spettacoli

Altro che contributi statali, il mercato salverà l’opera

Vi sono situazioni in cui le difficoltà finanziarie, tanto nel pubblico come nel privato, obbligano a realizzare quelle scelte indispensabili che altrimenti si sarebbero evitate. In questo senso, se le attuali esigenze dei conti pubblici portassero a tagliare i finanziamenti statali alla lirica ci sarà solo di che essere contenti.
Un quarto di secolo fa, quando collaboravo in qualità di critico musicale con un quotidiano genovese, mi trovai ad assistere (e a descrivere) le animate proteste di una parte del pubblico in occasione di un’opera prima. Diatribe artistiche? Niente di tutto questo. Semplicemente una fazione del mondo musicale ligure, quella comunista, contestava che si fosse inserita in cartellone l’opera prima di un giovane compositore di area socialista, che oggi - tra l’altro - è sovrintendente di uno dei maggiori teatri italiani. Già allora fui costretto a rilevare che se la cultura diventa di Stato, è fatale che si arrivi a esiti tanto penosi.
Nell’Ottocento le cose andavano diversamente. Spesso lo si dimentica, ma la grande tradizione del teatro musicale moderno (lasciando da parte Claudio Monteverdi, per intenderci) si è sviluppata entro logiche di mercato. Da Bellini a Rossini, da Verdi a Puccini, la musica lirica italiana si è affermata in assenza di fondi per lo spettacolo e politiche redistributive. Chi voglia studiare questa fase gloriosa della nostra storia culturale non può ignorare, d’altra parte, il nome di Giulio Ricordi e il suo ruolo di imprenditore colto, raffinato e abile, capace di realizzare profitti.
Non penso affatto che sottrarre allo Stato i teatri musicali sia una condizione sufficiente a far rinascere questo settore, ma certo si tratta di una condizione necessaria. Basti guardare allo sviluppo che hanno avuto e hanno quegli ambiti - dal musical al rock - che, pur disponendo in linea di massima di prodotti assai meno validi, riescono però a conseguire un notevole successo di pubblico. Senza dimenticare che quella pur limitata penetrazione tra le nuove generazioni che la musica della grande tradizione è riuscita a realizzare si deve talora a impresari che hanno saputo inventare fenomeni di sicura presa mediatica: come nel caso dei «tre tenori».
Nelle mani di amministratori lottizzati e di burocrati senza vere motivazioni, i nostri teatri musicali sono potenzialità costantemente sprecate. A dispetto del fatto che l’opera sia in larga misura italiana e che alcuni nostri brand (la Scala, ad esempio) continuino ad avere un prestigio senza confronti, non esiste una vera capacità di sfruttare tutto ciò e di promuoverne la valorizzazione: anche grazie alle nuove tecnologie. Come altri settori, la lirica italiana è totalmente inadeguata, in quanto costosa e produttiva, esattamente perché riceve soldi pubblici e quindi rappresenta un mondo «fuori mercato». Obbligare la gente del teatro musicale a vivere del proprio lavoro è allora indispensabile anche per dare un futuro a tale tradizione.
Senza dimenticare un dato. Chi è liberale non ama la redistribuzione: ossia che si tolga soldi ad alcuni per darli ad altri. Ma se la redistribuzione è contestabile in sé, ancor più lo è quando si tratta di togliere a tutti (compresi i poveri, dunque) per dare ad alcuni e in particolare ai più ricchi. In termini tecnici, insomma, si dice che il finanziamento pubblico della lirica è una redistribuzione «perversa»: è in azione un Robin Hood alla rovescia, dato che la maggior parte degli spettatori e anche dei lavoratori dell’opera appartiene ai ceti medio-alti.

Prima si chiudono i cordoni della borsa, dunque, e meglio è.

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