
Pensare che l'incipit era stato problematico. Vai a sbattere contro il Barcellona, e può starci. Ma poi ti fermano sul pareggio anche il Rubin Kazan e la Dinamo Kiev, e va un po' meno bene. A guardarla adesso, quell'Inter di Champions di 15 anni fa, l'effetto è quasi straniante. Parti ingolfato e arrivi fino in fondo sollevando la coppa. Gli ostacoli disseminati dal destino si chiamavano Barcellona e Bayern Monaco, come in questa edizione. I blaugrana in semifinale, come quest'anno. I bavaresi nell'atto conclusivo al Santiago Bernabeu, per vincerla. Pochi giorni fa, anche chi non tifa Inter si è comunque riempito gli occhi dell'allucinante duello con il celestiale Yamal e la terrificante comitiva dei suoi colleghi. Il 4-3 di San Siro, congiunto al pareggio iberico, resterà roba incisa negli annali della coppa dalle orecchie sporgenti. Palpitante, assurdo. Un frullato di felicità.
C'era il Barcellona in semifinale, si diceva, e chiunque ricorda come andò quel doppio scontro. L'Inter che demolisce per 3-1 gli avversari a San Siro (Sneijder, Maicon, Milito), per poi resistere al tentativo di remuntada al Camp Nou, per nulla velleitario, considerato il livello atomico degli avversari. Una contesa che ricorda da vicino quel che è appena successo, perché anche in questo caso i catalani sembravano la squadra più forte, capace di dettare i ritmi, di gestire e lacerare all'occorrenza, di far sanguinare a fiotto con campioni ingiocabili. Eppure, anche stavolta in finale ci vanno i nerazzurri. E l'assonanza con quello spirito è impressionante, perché oggi come quindici anni fa l'Inter ha dovuto gettare sul campo il 120% del suo potenziale per spuntarla.
Era, quella, la squadra del leader carismatico Mou. Di Julio Cesar che erigeva muretti a secco in porta (le paratissime di Sommer sono cugine di quelle), di centrali stampati in granito come Lucio e Samuel (auguri se ci andavi a sbattere), dei treni come Maicon e Chivu sui lati, di Zanetti, Cambiaso e Sneijder (forza e qualità), di Eto', del Principe Milito e di Pandev. Di Cordoba, Stankovic, Materazzi, e pure di Balotelli. La filigrana non si sovrappone esattamente, ma perlustrando quegli scatti, i margini restituiscono la solidità di Acerbi e Bastoni, le irrefrenabili galoppate di Dumfries e Dimarco, la lucidità di Calha e Mkhitaryan, la feroce attitudine sottoporta di Lautaro e Thuram.
Stavolta i bavaresi, non senza affanno, sono già stati archiviati. In finale ci sarà un altro avversario, ma il percorso espresso fino ad oggi ricorda quello di un gruppo che - a prescindere dalla statura degli opponenti - non vorresti mai incontrare in una partita secca. In tutto questo si inserisce anche la dialettica instaurata con l'allenatore. Simone Inzaghi è per la squadra più di un semplice leader tecnico: intorno a lui i calciatori si cementano, ossigenano tessuti messi alla prova da tonnellate di partite nutrendosi della passione che trasmette, della sensibilità che dimostra verso tutti, della narrazione dirimente del "Noi contro ogni ostacolo". Un'impronta che rammenta da vicino quella del condottiero lusitano, capace come nessun altro di proteggere e caricare il gruppo, addensando sugli altri ogni forma di preoccupazione.
Chissà se adesso l'Inter potrà finire di medicare la recente ferita inflitta dalla
finale contro il Manchester City. Chissà che quel gol dolente gol di Rodri non sia stato soltanto il primo tempo di un match più lungo. Ci arrivano con lo stesso spirito del 2010. Tutto è davvero possibile.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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