Altro che Marcos: in foto un italiano e non il comandante

La dichiarazione della presidenta ha fatto tirare un sospiro di sollievo. «La nostra carne non verrà esportata». Il filetto in Argentina scarseggia e costa caro. Ma d’ora in poi resterà in casa. Ma questo è l’epilogo. Prima erano arrivate oscure frasi apparentemente senza senso. Un mese fa alla conferenza stampa la presidente Cristina Kirchner si era presentata di tutto punto, elegante e perfetta come sempre, per dire a microfoni e telecamere: «Il consumo di carne di maiale migliora l’attività sessuale». Il silenzio era calato in sala. «Ma come la carne di maiale?», si erano chiesti tutti. Eppure gli osservatori più perspicaci non si erano lasciati trarre in inganno: dalla Kirchner nessun motto di spirito, nessuna boutade. Solo l’anticipazione di un problema reale, concreto, tremendo, che rischia di colpire il Paese al cuore, che gli scippa l’identità più profonda, gli strappa la tradizione della domenica a pranzo, quando tutta la famiglia si riunisce per l’asado, quando il capofamiglia si mette alla parrilla, arrostisce e cuoce, con pazienza, con sapienza per i figli, per i nipoti, più di una festa, come una riconciliazione.
Un mese dopo l’Argentina è alle prese con il razionamento della carne. Parola infame e brutale. Il filetto ormai costa una fortuna, 60 pesos, 12 euro al chilo. Uno sproposito, il doppio rispetto a qualche mese fa, inaccessibile per la maggior parte della popolazione. I macellai si lamentano: dall’inizio dell’anno i prezzi sono esplosi con aumenti tra il 50 e il 70 per cento. I barbecue domenicali sono diventati un lusso per ricchi, gli amici quando si ritrovano propongono pizza, da un paio di settimane nei menù dei ristoranti sono apparsi fogli volanti sui quali si legge: «I prezzi dei piatti a base di carne subiscono le variazioni dei prezzi di mercato». L’anima argentina è confusa, alle prese con ricette a base di tristissimi polli.
I manzi latitano. Nelle praterie le mandrie sono ridotte a mangiare foraggio artificiale. Tutta colpa della soia. Soia da esportare in Cina o soia da trasformare in ecobenzina. Ettari ed ettari di pascoli trasformati in campi più redditizi. Dal 2003 in Argentina oltre un terzo della superficie coltivabile del Paese è stato convertito alla produzione di soia, che oggi occupa addirittura il 60 per cento dei terreni. E così i manzi scompaiono. Giorno dopo giorno lasciano spazio, spodestati da quei ciuffetti d’erbetta che fanno la fortuna del Paese in tema di esportazioni. Mandrie di razza Angus, le più pregiate del mondo, costrette a fuggire a nord, nel caldo torrido dell’Argentina. Qui, tra l’afa e il sole insistente le purissime Angus si incrociano con quelle di provenienza brasiliana e indiana, le Brahman. Gli estimatori più raffinati hanno già iniziato a storcere il naso. «Non è più la qualità di una volta», si lamentano. E c’è già chi ha pensato ad un nome nuovo per identificarle, per stigmatizzarle: le Brangus, che danno carne stopposa, secca, costrette nei recinti, a mangimi. Tutta colpa della soia; negli ultimi quindici anni, dieci milioni di ettari di Pampas sono stati come brutalizzati, snaturati, trasformati. Anche i gauchos, i famosi mandriani del Sud stanno lentamente perdendo l’identità: si ritrovano a cavallo di nuovissime macchine agricole a produrre soia. Dicono che una macchina vale 500 contadini.
Da economico, il problema sta diventando politico. Le associazioni dei consumatori insorgono, la gente vuole tornare a mangiare carne buona ed economica. L’offerta è scarsa, se non addirittura insufficiente a soddisfare un popolo così orgogliosamente carnivoro. La Kirchner ha dovuto sospendere le esportazioni di carne, per soddisfare almeno il mercato interno. Spera di far abbassare il prezzo. La carne di maiale non convince gli argentini. È buona, sfiziosa, ma non può essere un’alternativa al filetto.

Niente da fare. Le scelte del governo dovranno essere riviste, l’esportazione della soia rende, è vero, ma il prezzo da pagare è troppo alto. Senza l’Angus l’Argentina si trova con l’anima ferita, con l’identità rubata.

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