«Abbiamo cacciato un dittatore, ma la dittatura è rimasta!» gridavano la notte scorsa i dimostranti al Cairo, mentre venivano caricati a manganellate e arrestati in massa. Radunati di nuovo a migliaia in piazza Tahrir per chiedere l'apertura di un processo contro Mubarak, tuttora rintanato nella sua villa di Sharm el-Sheik, hanno cominciato presto a prendersela anche con il Consiglio Supremo militare e il suo presidente maresciallo Tantawi, un ufficiale settantacinquenne ancora addestrato in Urss che prima di subentrargli aveva lavorato per trent'anni fianco a fianco con il Raìs per mantenere la stabilità. Ma quando ne hanno chiesto le dimissioni, è arrivata immediatamente la repressione, con la solo differenza rispetto ai vecchi tempi che ad attaccare non è stata la polizia, ma l'esercito.
Poche cose in effetti sono cambiate in Egitto dopo l'apparente trionfo della piazza, che aveva fatto esultare tutti i «progressisti» di questo mondo. Nonostante i cambiamenti apportati alla Costituzione, il via libera alla formazione di nuovi partiti e i preparativi per le elezioni, Tantawi e il suo Consiglio, responsabili per la transizione, esercitano lo stesso potere assoluto che prima era di Mubarak e procedono con la stessa irritante segretezza: nelle prigioni continua ad essere praticata la tortura, i diritti delle donne (che pure avevano avuto una parte importante nella rivolta) sono conculcati forse più di prima e nessuno ha ancora mosso un dito per ridurre la corruzione. Le Forze armate, investite di un compito che non è il loro, sembrano intente a proteggere i loro rilevanti interessi anziché promuovere le istanze popolari. Così, dopo due mesi, i giovani rivoltosi stanno perdendo di nuovo la pazienza e piazza Tahrir ha ripreso a riempirsi, con il rischio di nuovi eccidi (la notte scorsa per fortuna i morti sono stati solo due).
Ma non è solo la piazza egiziana ad essere frustrata. L'intera «grande rivolta araba», che sembrava dovesse cambiare il mondo, sta segnando il passo, e a mano a mano che arriva a toccare interessi forti - come in Arabia Saudita - viene abbandonata al suo destino anche dall'Occidente. Il solo posto dove finora ha trionfato è la Tunisia, con il risultato che alla dittatura di Ben Ali è subentrata una specie di anarchia, che ha portato alla fuga in massa di 25.000 giovani verso l'Italia. In Algeria il regime ha soffocato le dimostrazioni senza troppa difficoltà, in Libia gli insorti non riescono ad abbattere Gheddafi nonostante il consistente aiuto degli aerei della Nato, nel Bahrein l'arrivo delle truppe saudite ha posto facilmente fine a una rivolta sciita in parte ispirata dall'Iran e perfino nello Yemen, dove pure i morti si contano già a centinaia, il presidente Saleh è ancora in sella.
Sotto i riflettori c'è adesso soprattutto la Siria, dove ci sono state venerdì, in varie città, le dimostrazioni più imponenti e sanguinose dall'inizio dei disordini. Qui non siamo di fronte a una rivolta del pane, quanto a una catena di insurrezioni di ispirazione diversa e non bene coordinate, che il presidente Bashar Assad è riuscito finora a tenere a bada. Ma la cosa significativa è che la Comunità internazionale, preoccupata per le sorti della popolazione civile libica al punto da scatenare una guerra, ha voltato gli occhi dall'altra parte di fonte ai quasi duecento morti siriani: qui infatti a una caduta del regime, considerato tuttora saldo, potrebbe subentrare un caos capace di incendiare tutto il Medio Oriente.
Insomma, dopo due mesi di gloria, la "grande rivolta araba" sembra perdere la sua spinta propulsiva.
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