«L’opinione pubblica deve sapere. Troverò le strade e i modi affinché si sappia come sono andate le cose». Parlerà dei Ds? «Dirò tutto». Qualcuno deve tremare? «Chi sa di aver fatto scorrettezze». È l’ex presidente e amministratore delegato di Unipol Giovanni Consorte a parlare così, all’indomani della condanna in primo grado a 3 anni e 10 mesi, più 1,3 milioni di multa, per la scalata di Unipol a Bnl.
Come molti condannati, Consorte si proclama innocente: «Mi sento un perseguitato dalla magistratura», dichiara al Corriere. E per suffragare la sua tesi rievoca una conversazione con Cossiga: «Mi disse che l’operazione Bnl aveva implicazioni politiche tali che per evitare che una banca andasse ai comunisti c’era chi avrebbe fatto qualunque cosa. Mi disse che ero stato fortunato a non essere stato ucciso». Vero? Falso? Di certo, nella versione di Consorte, la politica, e in particolare il rapporto fraterno con l’ex Pci, ha un ruolo fondamentale nella vicenda che ha portato alla sua condanna. E l’ex manager delle assicurazioni rosse sembra intenzionato a non dimenticarlo. Tanto più che anche l’attuale ad di Unipol, Carlo Cimbri, è stato condannato a 3 anni e 7 mesi, più un milione di multa.
Del resto, la sentenza su Consorte richiama anche le famose telefonate con Piero Fassino, allora segretario del partito, e con il senatore Nicola Latorre. Il reato in questo caso è insider trading, non perché i tre si siano arricchiti sfruttando informazioni riservate, ma perché quelle informazioni, proprio perché potenzialmente idonee ad alterare il valore dei titoli in borsa, non potevano essere comunicate ad estranei. Se Consorte lo ha fatto, al di là dei rapporti di cortesia e di solidarietà politica, è perché evidentemente i Ds seguivano con particolare interesse l’operazione Bnl (è di quel periodo l’«abbiamo una banca?» del segretario Fassino).
L’intenzione di Consorte di vuotare il sacco, e raccontare «tutto» all’opinione pubblica, potrebbe dunque farne il vero rottamatore del Pd, altro che Matteo Renzi. Soprattutto perché non si tratta di un caso isolato. Le affinità con la vicenda Penati sono inquietanti (dal punto di vista politico, perché gli eventuali reati contano soltanto nei tribunali): in entrambi i casi, infatti, il legame con il vertice del partito è evidente (Consorte con Fassino, Penati con Bersani), e in entrambi i casi il partito ha fatto terra bruciata, derubricando l’incidente a caso isolato e additandone il responsabile come una mela marcia in un cesto altrimenti immacolato.
È proprio a questo schema che Consorte sembra non volersi piegare. Forse perché si sente umanamente tradito da un partito cui è legato da sempre, forse perché ha qualche sassolino nella scarpa, forse perché non ci sta a fare il capro espiatorio, il fatto è che l’ex manager sembra non rassegnarsi all’idea di essere additato (e condannato) come un criminale per quelle stesse azioni che in precedenza gli avevano meritato le lodi del suo partito.
È probabile che le rivelazioni di Consorte - se davvero verranno - non avranno un risvolto giudiziario diretto. Del resto, Fassino non è mai stato indagato dai pm che conducono l’inchiesta, e il Parlamento ha negato l’uso delle intercettazioni che coinvolgono Latorre. Ma l’impatto politico potrebbe essere molto forte, e persino devastante.
Per una bizzarra ironia della cronaca, è stato proprio il Pd a invocare più volte nel corso del tempo la «questione morale», e a schierarsi sempre e incondizionatamente dalla parte
delle procure: per questo diventa sempre più difficile spiegare Tedesco, Delbono, Morichini, Pronzato, Penati e Consorte. La teoria della mela marcia rischia di non reggere, e il giustizialismo finisce col divorare se stesso.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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