«È un altro passo avanti ma ancora ci divide Israele»

«È un altro passo avanti ma ancora ci divide Israele»

Marta Ottaviani

Un gesto ricco di significato, ma il dialogo fra cristiani ed ebrei deve fare passi avanti. È questo il parere di Riccardo Di Segni, rabbino Capo di Roma, sulla visita di Benedetto XVI alla sinagoga di Colonia.
Rabbino Di Segni che valore ha secondo lei la visita di Benedetto XVI alla sinagoga di Colonia?

«È un gesto di grande significato, perché convergono diversi fattori. Non solo si tratta del primo viaggio all’estero di un nuovo Papa. Ratzinger è tedesco e ha voluto rendere omaggio alla comunità ebraica del suo Paese, la Germania, che ha conosciuto l’orrore dell’Olocausto. Se si pensa a tutti questi aspetti, il suo gesto assume una portata enorme».

Come cambieranno i rapporti fra ebrei e cristiani dopo questa visita?

«Non cambieranno, anzi. Credo che l’aspetto più importante di questo evento sia la continuità con l’opera di Giovanni Paolo II. Se devo dare una prima lettura al discorso di Benedetto XVI, penso che il tema più importante sia il desiderio di portare avanti ciò che la Chiesa Cattolica ha elaborato in questi ultimi anni. Come ha ricordato il Pontefice è una grande occasione per lavorare insieme».

Nel suo discorso il Papa ha usato parole forti contro l’antisemitismo, ma, a differenza di Giovanni Paolo II, non ha chiesto scusa per gli errori commessi dalla Chiesa.

«Sarebbe sbagliato interpretare questa scelta come una dissociazione dalle posizioni del suo predecessore. Benedetto XVI ha voluto sottolineare con forza la natura anticristiana del nazismo, che ha definito neo paganesimo. Nel discorso alla sinagoga di Colonia non ha fatto cenno all’indifferenza cristiana, è vero, ma lo ha fatto in altre occasioni».

Abhram Lehrer, presidente della comunità ebraica di Colonia, ha chiesto a Benedetto XVI l’apertura totale degli archivi vaticani per il periodo che riguarda la Seconda guerra mondiale. Crede che il Papa accetterà?

«A questa domanda può rispondere solo il Pontefice. Quello che posso dire io è che l’apertura totale degli archivi vaticani, per far luce sul ruolo della Chiesa durante il conflitto, è una questione ancora troppo complessa a causa di posizioni politiche diverse. Senza dimenticare che c’è di mezzo anche il processo di beatificazione di Pio XII. Del resto, se ci si pensa, le questioni da affrontare, sono ancora molte».

Per esempio?

«È un discorso molto lungo. In sintesi, ci sono alcune questioni irrisolte che ebrei e cristiani devono discutere con un atteggiamento franco e non apologetico da entrambe le parti. Una delle più importanti è certamente quella di Israele. Per noi ebrei, Israele è il popolo ebraico. Mercoledì scorso, citando un salmo di Sant’Ambrogio, lo stesso Papa ha affermato che il nuovo Israele è rappresentato dalla Chiesa Cattolica. Dal punto di vista teologico è una questione di importanza fondamentale e risale alle origini dei rapporti fra Ebraismo e Cristianesimo. Noi ebrei non siamo né l’Israele vecchio, né, tanto meno, l’Israele falso. Su questo argomento il dialogo teologico deve essere particolarmente intenso, perché coinvolge altri aspetti. Nel suo discorso Benedetto XVI non ha nominato la parola Israele una volta, nemmeno come Stato».

A proposito di Israele, pensa che un discorso così aperto possa contribuire ad appianare il recente strappo fra il Papa e Sharon?

«Lo ripeto: prima bisogna che la Chiesa Cattolica affronti il riconoscimento di Israele dal punto di vista teologico».

Alla fine del suo discorso Benedetto XVI ha sorpreso tutti, proseguendo a braccio e usando il termine «amarsi». Coma valuta tanto calore?

«Dal punto di vista psicologico credo sia stata un’esigenza personale. Giovanni Paolo II ci aveva abituato a una personalità molto carismatica.

Benedetto XVI si trova a raccoglie un’eredità importante anche da questo punto di vista. Deve far dimenticare la sua figura di rigido difensore dell’ortodossia. Ci vorrà del tempo, ma tutti questi gesti ottengono un riscontro positivo. È sulla strada giusta».

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