Roma - La scuola media italiana è già in recessione. Non è la prima volta che si mettono sul banco degli imputati i tre anni della scuola secondaria di primo grado. Anzi, da tempo gli esperti del settore addossano proprio a quel ciclo di studi la responsabilità della caduta dei livelli di apprendimento degli studenti e le enormi difficoltà che poi incontrano nelle superiori. Difficoltà che in molti casi si trasformano in un fallimento e quindi nell’abbandono della scuola.
A confermare che le medie sono «l’anello debole della catena» arrivano i dati del Rapporto sulla scuola in Italia 2011, curato dalla Fondazione Agnelli e interamente dedicato alla scuola secondaria di primo grado nella convinzione, spiega il direttore della Fondazione, Andrea Gavosto, che sia questo il nodo cruciale da affrontare subito per il neoministro dell’Istruzione, Francesco Profumo.
Il confronto dei dati forniti da ricerche internazionali e rielaborati nel rapporto della Fondazione (redatto da Gianfranco De Simone, Gerard Ferrer-Esteban, Andrea Gavosto, Marco Gioannini, Stefano Molina e Alessandro Monteverdi) conferma che l’Italia è il paese con il calo di apprendimenti più netto alle medie. Una scuola «basata sul deleterio principio di non selettività» che segue una logica di «equità al ribasso»: si apre a tutti ma si offronto in realtà le stesse opportunità di successo.
Perché accade? Le ragioni individuate dalla ricerca sono fin troppe. Le medie vantano una serie di primati negativi. L’eta media più alta fra i docenti, oltre i 52 anni. Docenti il cui numero si è dimezzato negli ultimi 25 anni dai 283.220 del 1986 ai 178.400 del 2010. Praticamente la maggioranza è entrata nel 1982 e nel giro di quattro o cinque anni andrà in pensione. Non solo. Le medie sono anche il segmento del sistema scolastico italiano con il maggiore turnover: la media degli insegnanti che non resta nella stessa scuola da un anno all’altro è del 35 per cento alle medie, del 30 alle superiori e del 22 alle elementari. Dunque insegnanti anziani, che cambiano in continuazione, spesso non aggiornati sulle nuove tecnologie, ancorati a un unico modello didattico, quello della lezione frontale, e soprattuto non attrezzati ad affrontare le problematiche sempre più complesse della preadolescenza.
Il quadro che ne scaturisce è quello di una sovrapposizione di disagi. Difficoltà nel rapporto tra insegnanti e famiglie e nel rapporto tra professori e alunni, che sono comunque più scontenti rispetto ai loro coetanei di altri paesi. Scarsa preparazione nel campo delle nuove tecnologie da parte dei professori che rende ancora più ampio il distacco con gli alunni, «nativi digitali» che si muovono con disinvoltura tra i- pad e i-phone. E poi l’impatto enorme che negli ultimi anni ha avuto l’ingresso di tanti studenti stranieri con ovvie difficoltà a partire dal linguaggio senza alcuna preparazione specifica per i docenti.
Un quadro senza speranza? In realtà no perché il prossimo pensionamento di un numero così alto di docenti potrebbe trasformarsi in un’opportunità di rilancio per la scuola media. La Fondazione Angelli lancia una proposta «scandalosa» che intacca uno dei tabù della scuola: l’orario dei docenti. «È giunto il momento di sciogliere quel patto scellerato che ha fin qui governato i rapporti fra stato e insegnanti: il primo, soddisfatto del contenimento del costo del personale, ha accettato che l’orario di lavoro effettivo degli insegnanti si fermasse a 18 ore in cambio di uno stipendio modesto, chiudendo gli occhi su eventuali lezioni di recupero effettuate privatamente; i secondi hanno accettato condizioni di lavoro inadeguate». Insomma i professori, tutti, devono essere pagati di più per lavorare di più ma soprattutto in modo diverso. Non ci si può affidare alla buona volontà dei tanti docenti che si aggiornano e dedicano ai loro studenti il massimo. Occorre cambiare il sistema, smantellando il modello unico delle lezioni frontali, aprendo la scuola anche al pomeriggio.
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