Francesco Damato
Gli amici di Giuliano Amato, fra i quali vorrei essere considerato anchio, per quanto dissenta dalle scelte politiche da lui compiute dopo la caduta di Bettino Craxi, potranno fargli gli auguri dopodomani, sabato. Ma solo per il suo sessantottesimo compleanno, non certo per lelezione ancora una volta mancata alla presidenza della Repubblica. Ancora una volta perché, già sette anni fa, prima ancora che uscisse dal cilindro delle riservatissime trattative fra i partiti laccordo su Carlo Azeglio Ciampi, si parlò di lui. Che allora era il ministro delle Riforme del primo governo di Massimo DAlema.
Ricordo, di quella vicenda, un fuggevole incontro a Montecitorio. Io entravo e lui usciva dal numero 24 di Piazza del Parlamento. Commentando le voci sulle probabilità di una sua candidatura al Quirinale, egli abbozzò un sorriso e mi disse, con sconfortato realismo: «Non mi perdoneranno lesperienza politica con Bettino». Del quale era stato per quattro anni, dal 1983 al 1987, il «sottile» sottosegretario a Palazzo Chigi, dove sarebbe tornato allindomani delle elezioni del 1992 come presidente del Consiglio, mandatovi dallo stesso Craxi. Che aveva ripiegato su di lui dopo essersi sentito rifiutare lincarico da Oscar Luigi Scalfaro, allarmato da notizie, previsioni e quantaltro sulle indagini «Mani pulite» verificate con il capo della Procura di Milano, irritualmente convocato dal presidente della Repubblica durante le consultazioni per la formazione del governo.
La «colpa» del craxismo è evidentemente tornata a penalizzare Amato anche adesso, per quanti sforzi egli abbia fatto in quattordici anni di riposizionarsi politicamente: prima rifiutando di succedere a Bettino alla segreteria del Psi e contribuendo così allo scioglimento di quel partito, poi collaborando con DAlema ai suoi due governi, sino a succedergli nel 2000 a Palazzo Chigi, ma soprattutto aiutandolo a costruire le «cose» che si sono succedute al Pci con un'enfasi pari alla loro ambiguità.
Di questa ambiguità lo stesso Amato devessersi reso conto se dei Ds non ha mai chiesto la tessera, come gli ha praticamente rinfacciato Luciano Violante spiegando ad un ascoltatore di Radio Radicale le ragioni per le quali lex Pci non ha mai considerato la possibilità di essere rappresentato al Quirinale da uno che pure è uno dei vice presidenti del Partito socialista europeo, al quale aderiscono i post-comunisti italiani. Amato «non è un iscritto o un militante dei Ds», ha sbrigativamente ricordato Violante lunedì anticipando così una risposta anche ad Angelo Panebianco, che un po ingenuamente si è doluto il giorno dopo sul Corriere della Sera che i capi diessini «fatichino a considerare dei loro un socialista» come Giuliano, «il cui profilo politico-culturale, a ben guardare, non è poi così lontano da quello di Napolitano».
Poiché lo stesso Amato si è chiesto con il titolo del suo ultimo libro se «un altro mondo è possibile», la risposta se la può dare ora da solo, almeno sul piano personale. No, non è possibile per lui un mondo politico diverso da quello in cui egli stesso ha scelto di vivere come un invitato: veste nella quale partecipa abitualmente ai congressi diessini e alle loro liste elettorali.
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