Si fa un gran parlare, in questi tempi, delle difficoltà cui vanno incontro in Italia le piccole e medie imprese, che poi sono la spina dorsale del Paese. Nell’ordine, di queste difficoltà si citano: una mannaia fiscale senza eguali nel mondo; la mancanza di ogni paracadute quando si incappa in un periodo storto; il rischio di perdere i capitali investiti.
Tutto vero, anzi verissimo. Ma c’è un’altra «tassa» imposta ai piccoli e medi imprenditori; una tassa di cui non si parla quasi mai perché si rischia, parlandone, di passare per nostalgici dei tempi delle ferriere; ma è una tassa reale, che a volte rischia di costringere l’imprenditore a chiudere baracca e burattini.
Sto parlando dell’impossibilità (per le aziende che a libro paga hanno anche una sola persona più delle quindici canoniche) di licenziare un dipendente. Attenzione: non un dipendente qualsiasi. Non quelli cosiddetti «in esubero» (che solo alcune grandi aziende possono licenziare quando vogliono, tanto poi c’è lo Stato a reintegrarli con qualche sinecura). No, sto parlando dei lazzaroni. Dei ladri. Degli assenteisti. Degli imbroglioni. Insomma di coloro per i quali non dovrebbe scattare neanche la tutela sindacale perché, pescati con le mani nella marmellata, in un qualunque Paese normale vengono non solo licenziati ma anche mandati sotto processo.
Il fatto è però che il nostro non è un Paese normale. Ieri abbiamo pubblicato la notizia di una mirabile sentenza della Cassazione che ha costretto un’azienda non solo a riassumere, ma perfino a risarcire, un dipendente che faceva credere di essere presente e poi se ne andava a farsi i fatti suoi. Qualcuno ha scritto che la Cassazione ha ordinato la riassunzione del lavativo in questione perché questi era stato scoperto da un filmato, e non è lecito «spiare» un dipendente. Ma il dipendente non era stato «spiato». La telecamera che ha certificato le fughe del lazzarone non era stata azionata apposta per lui, ma era quella da sempre collocata nel garage per motivi di sicurezza. È l’obiettivo di quella telecamera che ha documentato che il dipendente, dopo aver fatto passare il badge nella macchinetta elettronica, se ne andava. Eppure la Suprema Corte ha solennemente stabilito che da parte dell’azienda vi è stato un «uso esasperato dei mezzi tecnologici». Esasperato? Ma c’è di meglio, anzi di peggio: nella sentenza è scritto pure che così facendo - cioè facendo come fa l’azienda, non come fa il dipendente - si rischia di annullare «ogni forma di garanzia della dignità e della riservatezza del lavoratore». Dignità? Ma quale dignità si può intravedere in chi ruba lo stipendio e poi ha il coraggio di far causa se viene licenziato?
La sentenza dell’altro ieri purtroppo non è un’eccezione, ma una vergognosa regola. Ricordo che molti anni fa, quando facevo il cronista giudiziario, un grande albergo milanese licenziò il suo portiere di notte che nelle ore piccole, ovviamente all’insaputa del datore di lavoro, affittava le stanze alle belle di notte e ai loro clienti. Un simpatico pretore ordinò il reintegro dell’infedele custode perché l’albergatore - che aguzzino - l’aveva fatto controllare. Ricordo anche che in uno dei giornali in cui ho lavorato - non dico quale - l’editore non poté licenziare un giornalista che «navigava» sui siti pedofili in orario di lavoro perché una verifica sull’uso del computer aziendale è «lesiva della privacy».
Non c’è bisogno di altri aneddoti.
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