Anche Rotondi e i suoi sono pronti a lasciare

Roma - Una sua celebre frase recita: «Il Parlamento è come la salute: ti rendi conto che è importante solo quando non ce l’hai più». Eppure Gianfranco Rotondi, uomo mite, cortese, ironico e mai banale, questa volta stupisce tutti e detta il suo «non possumus», il suo gran rifiuto al governo Monti portato fino alle estreme conseguenze. Lo fa convocando una conferenza stampa insieme ai compagni di partito della Dc, eletti nelle liste del Pdl, Mauro Cutrufo e Franco De Luca, e pronunciando quella che è senz’altro la parola meno frequentata del vocabolario di un parlamentare: dimissioni. Una sorta di kryptonite che viene solitamente fatta balenare in lontananza, offuscata da una vagonata di «se», di «ma» e di condizioni revocabili. Questa volta, invece, l’aut aut è limpido e facilmente verificabile. «Mi dimetterò da deputato nel caso in cui il Pdl avallerà la fiducia a un governo tecnico».
Sono le undici e mezza quando Rotondi - che sabato 12 novembre parteciperà alla manifestazione organizzata da il Giornale e Il Foglio «contro la tecnoburocrazia al potere» - si presenta a Montecitorio. Sorridente smentisce subito con un battuta le notizie circolate poco prima nei palazzi della politica. «Ho un certo senso dell’ironia» precisa, «ma convocare una conferenza stampa per annunciare le mie dimissioni da ministro 48 ore prima della fine del governo strapperebbe soltanto facili battute». Il concetto vero è un altro: «Non si può profittare della crisi per sospendere la democrazia» e far passare un governo che sarebbe un «inevitabile papocchio». La decisione sua e della sua piccola «ultima onorevole pattuglia democristiana in parlamento» (Cutrufo è senatore, De Luca è deputato) è chiara: loro, in ogni caso, non sosterranno l’esecutivo tecnico. Non lo faranno neppure se a chiederglielo sarà lo stesso Silvio Berlusconi. «Serve un gesto forte, simbolico, di dignità», insiste Rotondi, annunciando che lui e i suoi sono pronti a rassegnare le dimissioni per «un fatto di coscienza».
Su un punto, però, il ministro per l’Attuazione del Programma ci tiene ad essere chiaro: lui e i suoi uomini non verranno meno al vincolo di lealtà verso il Pdl. «Io non collaboro alla spaccatura, resto un uomo del Pdl e un amico di Berlusconi», garantisce, «i nostri voti sono a disposizione del presidente, sotto il cui nome siamo stati eletti. Se deciderà di dare la fiducia a questo governo ci dimetteremo facendo subentrare i primi dei non eletti».
Rotondi non si tira indietro neppure quando c’è da pungere il Capo dello Stato. «Mi guardo bene dal tirare per la giacca il presidente della Repubblica» spiega. Ma quella che si va profilando rappresenta «un’ombra inquietante sulla vita politica italiana» e assomiglia molto a «una congiura» e a «un golpe silenzioso». Un giudizio che si estende anche alla nomina a senatore a vita dell’economista che per Rotondi «contraddice l’orientamento bipartisan di non fare più senatori a vita e diminuire i parlamentari». Peraltro «abbiamo già avuto premier tecnici come Ciampi e Amato e non mi risulta siano diventati senatori a vita».

Inoltre avallare il governo tecnico significherebbe «controfirmare un giudizio per cui il problema sarebbe Berlusconi, laddove il problema è l’opposizione che ha occupato le cronache presentando l’Italia come sul baratro a causa del solo Berlusconi». La verità, spiega, è che «il problema è storico, di un debito pubblico arrivato a livelli inaccettabili. L’emergenza è mondiale e l’Italia è il vaso di coccio».

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