È ancora lontano il tempo della pensione per il signor Anderson. Il cantante e leader dei Jethro Tull sta dando lezioni di vita e di vitalità a quanti continuano a interrogarsi sul destino del rock e della musica pop. Il menestrello di Dunfermile (Scozia) è sicuro della risposta: il rock sta bene ed è un ottimo integratore per allungare la vita e conservare le energie necessarie a godersela. Nel giusto modo, però. Visto che parliamo di una persona che conduce una vita parca lontano dai riflettori dello star system. Vegetariano, astemio, e senza patente di guida, Anderson ha sempre fatto della musica una forza propulsiva di massima vitalità, lontano anni luce dai modelli «maudit» che andavano per la maggiore tra i colleghi che con lui hanno illuminato il firmamento degli anni d'oro del rock.
Oggi è ancora sul palco a dispetto dei suoi 64 anni. Ancora in tournèe. I suoi Jethro Tull, infatti, restano una delle band più longeve e sicuramente quella con il maggior numero di concerti all'attivo, visto che non ha mai abbandonato la sana abitudine di salire su un palco per «intrattenere» il pubblico.
Ieri al Teatro Romano di Ostia antica si è chiusa la tappa italiana del nuovo tour. Dopo Asti, Reggio Emilia, Brescia e Cattolica, il complesso britannico ha salutato il pubblico italiano nella cornice dell'area archeologica a un passo dal mare della Capitale. A oltre quarant'anni di distanza da successi indimenticabili, ormai divenuti pietre miliari della musica del Novecento, il menestrello scozzese ha deciso di offrire non un semplice concerto, bensì una sorta di lezione di rock. Introducendo ogni brano con una piccola spiegazione e soprattutto sottolineando con garbata autoironia l'anno di composizione, Ian Anderson ha dimostrato ampiamente di sapere che il tempo passa per tutti e che la sua musica, oggi delizia per nostalgici baby boomer, ha bisogno di essere introdotta da spiegazioni. A differenza delle folle oceaniche che accoglievano la band sul finire degli anni Settanta (su tutti il celebre concerto al Madison Square Garden del 1978), quando al folk degli inizi si aggiungeva una buona dose di hard rock, i Jethro Tull ora si spendono per una pubblico molto più raccolto. A questi affezionati fan preferiscono regalare le perle migliori, quelle che la nostalgia (canaglia) rende più luminose, piuttosto che le ultime novità o quelle fughe nel virtuosismo innovatore che aiuta spesso i musicisti a evadere dalla ripetitività e dalla cattività in cui la loro stessa fama li riduce.
È sorprendente il modo in cui Ian Anderson e i suoi compagni di avventura (tra tutti spicca Martin Barre, il virtuoso delle sei corde che accompagna Anderson sin dal 1967) riescono ancora a rendere vivi (quindi seducenti) brani entrati ormai da tanti lustri nella nostra memoria musicale collettiva. Il simpatico menestrello si muove ancora con la grazia di un giovane ballerino. Non rinuncia alla sua «firma» (vale a dire suonare il flauto traverso restando in equilibrio su una sola gamba). I suoi musicisti lo seguono con passione ed entusiasmo ed è per questo motivo che brani come «Aqualung», «My God», «Bourèe», «Thick as a brick», «Heavy horses» e «Locomotive breath» restano attualissimi e la loro forza evocativa è praticamente intatta. Così come lodevole è il virtuosismo messo in campo.
Proprio come un menestrello elisabettiano, l'attempato Anderson intrattiene il suo pubblico assecondandone ricordi e desideri e il viaggio musicale diventa una sorta di «à rebours» nella storia del progressive migliore, quello - per intenderci - che ha fatto dell'eclettismo e della contaminazione le sue cifre indispensabili e ancor oggi illuminanti.
A conti fatti, però, il tempo passa per tutti. E se il buon Anderson può contare ancora su un'agilità davvero sorprendente, su un orecchio raffinato e su un suono limpido ed esatto, difficilmente può fare altrettanto con le sue corde vocali. Ai puristi va bene così. Per loro la sua voce roca e spezzata, che non arriva agli acuti e che costringe Anderson ad accontentarsi di un recitativo molto espressivo, non rovina l'atmosfera. È come la stagionatura del buon whisky, cui i palati fini non possono rinunciare. Questi puristi-nostalgici, ci scommettiamo, sono gli stessi che rabbrividiscono di piacere quando la puntina di diamante gratta impietosa su un vecchio vinile, lasciando sullo sfondo melodie ormai sfocate. La voce del menestrello di Dunfermile, quello che ha introdotto il flauto traverso nell'hard rock e che ha saputo mescolare con una sapienza davvero geniale i giri di blues con le sonorità del jazz più acido, accusa il peso impietoso degli anni. Il pubblico, come un parente che si costringe a ignorare il difetto di un congiunto, applaude comunque convinto e tributa più volte il menestrello di standing ovation commosse. Resta comunque il dubbio se non sia più utile farsi affiancare da un vocalist dal robusto timbro. In fondo non si tratta di canzonette di facile esecuzione.
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