Andrea del Sarto va alla guerra di topi e ranocchi

Si parla della Batracomiomachia, il poemetto eroicomico a lungo ritenuto attribuibile a Omero o comunque non indegno dell’autore dell’Iliade e dell’Odissea. Però nel 1815, il diciassettenne Leopardi, misurandosi con illustri antecedenti nell’impresa di tradurlo, accampava solide ragioni, filologiche e di buon senso, per assegnarlo ad epoca molto più tarda. Che quel poemetto sollecitasse sul serio il poeta di Silvia lo si sarebbe visto in un’opera sua più matura, quei Paralipomeni della Batracomiomachia che riprendono l’antica materia ma per volgerla in allegoria di fatti presenti, come si sa, nei contrapposti eserciti identificando i liberali (topi) e i papalini (rane), a cui porgono decisivo soccorso gli austriaci (granchi).
Amaro e cupissimo il significato dei Paralipomeni. Prima, il poemetto pseudoomerico non aveva stuzzicato se non l’estro comico dei suoi traduttori, dal Quattro al Settecento. Parodia dei massimi poemi, come nell’originale; con le divinità che dall’Olimpo osservano e parteggiano; eroi che concionano, bardati di preziose e ingegnose armature; duelli all’ultimo sangue e magari un filo di pietà per chi soccombe... Ciascun traduttore si industria, cerca nella lingua del proprio tempo le tessere verbali più adatte a restituire le virtù del greco antico. Ma un caso singolare - per le molte libertà che si concede - è quello di un grande pittore occasionalmente imprestato, nel 1519, alla poesia: il fiorentino Andrea del Sarto. Le edizioni San Marco dei Giustiniani ci ripropongono oggi il testo (La guerra de’ topi e de’ ranocchi, a cura di Paolo Senna, pagg. 120, euro 8) quale era apparso per la prima volta a Firenze nel 1788, comprensivo di un Avvertimento di Francesco Redi - pieno Seicento - e di un Avviso dell’editore. Un editore anonimo, le cui Note chiariscono parole e locuzioni di Andrea non sempre agevoli per un lettore del secolo XVIII, se non le registra, spesso, nemmeno il Vocabolario della Crusca.
Improvvisatosi poeta giocoso, Andrea rinarra dunque in sesta rima una futile guerra animalesca, scoppiata e conclusa nello spazio di un sol giorno, dopo che l’intervento di un «battaglione» di granchi impedisce, per volere dagli dèi, che un trionfo dei topi metta a rischio la sopravvivenza della specie dei ranocchi. Committente della fatica del pittore fiorentino è l’Accademia del Paiuolo: dodici consocii, le cui riunioni contemplano fervide fantasie culinarie, elaborate e godute all’interno del suddetto «paiuolo», nonché la recita di versi, talvolta nuovi come questi di Andrea. Prima di cominciare o dovunque gli giovi, nell’arco di ciascuno dei sei canti, l’autore chiama in soccorso la Musa, temendo di non essere all’altezza della sua gloriosa materia; si professa poeta senza qualità ma sfida i poeti di mestiere a praticare, essi, la pittura, e vedremo se sapranno cavarsela.
L’iperbole, naturalmente, è di casa; i nomi dei personaggi, ricalcati alla meglio sull’originale, squillano strappando il sorriso: Gonfiagote e Passabuchi, Strillaforte e Leccuomini, Vapelfango e Rodipane. «Oh quanta industria egli è costato, oh quanto/ vuotamento di zucca al suo Poeta!», esclama Andrea vicino all’epilogo... Un canto al giorno, per sei giorni consecutivi: non era il cómpito più adatto a una Musa come quella di Andrea, «solo avvezza/ schiccherar qualche verso in Carnevale». Degli aiuti prestatigli nell’arduo cimento, Andrea rende infine grazie a Ottaviano de’ Medici, umanista della gloriosa famiglia alla quale appartiene papa Leone X.

Siamo nel tessuto tangibile di un otium riservato agli eletti, in una Firenze tuttora colta, ambiziosa e potente; anche se dietro questi rituali di svago un po’ forzoso qualcuno potrebbe intravedere l’ombra di un declino che si approssima.

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