Nel parcheggio di un albergo della città di NN, capoluogo di regione, entrò una piccola utilitaria, piuttosto bella, di quelle in cui di solito viaggiano gli scapoli.
Al lettore parrà forse di aver già letto, in chissà quale libro o rivista, una simile frase. Del resto, si sa, le parole non sono poi molte, a questo mondo, e Dio solo sa in che modo e per quale ragione accada a questa o a quella persona di usarle nel modo che essa ritiene più adatto ai suoi fini.
Dunque, l’uomo, una volta sistemata con precisione millimetrica la vetturetta, altrimenti detta city car, nell’apposito spazio delimitato dalle strisce bianche tracciate a terra, ne discese agilmente. Era un quarantenne di media corporatura, di media altezza, di media bellezza. E di media intelligenza? chiederà il lettore. Questa, tuttavia, è una domanda alla quale non siamo in grado, almeno per ora, di rispondere. L’intelligenza non è materia di cui si possa giudicare in base a una semplice occhiata.
Una volta sceso dall’automobile, l’uomo, non prima di averle lanciato uno sguardo da cui traspariva tutto il suo amore per lei, se ne allontanò, con passo né troppo lento né troppo veloce, insomma, con un passo di media lunghezza e frequenza, dirigendosi verso un gruppo di persone sedute su alcune panchine in un giardinetto spelacchiato a una cinquantina di metri dal parcheggio.
Pavoneggiandosi un po’, nel suo vestito blu scuro gessato, il nostro eroe... Ma ci sovviene soltanto ora, e chiediamo subito perdono, che abbiamo mancato di presentarlo come merita al lettore. Poniamo subito rimedio alla nostra grave dimenticanza: l’uomo si chiamava Pavel Ivanovic Cicikov, ed era, così almeno si diceva in giro, amministratore delegato di una media società di leasing finanziario con sede legale (e anche non legale...) nella stessa città di NN. Ebbene, Pavel Ivanovic, dicevamo, pavoneggiandosi quanto bastava nel suo vestito blu scuro gessato e nelle sue scarpe lucidate con tale e tanta perizia da emettere bagliori a destra e a manca, raggiunse le persone accomodate sulle panchine. Panchine che un tempo non troppo lontano dal momento in cui si svolsero i fatti che stiamo narrando, erano state di un bel colore verde pisello, ma che ora, sia a causa delle intemperie, sia, soprattutto, a causa dell’azione di certi teppistelli che erano usi trasformarle in orinatoi pubblici, imbrattandole peraltro anche con scritte e bruciature, apparivano tristemente grigie e sbrecciate.
«Buongiorno a voi, matuska», proferì pomposamente Pavel Ivanovic rivolgendosi alla baba più anziana del gruppo. Perché quelle persone, anche questo occorre specificare, erano tutte babe e quel giardinetto in cui le cartacce e (con rispetto parlando) certi bisognini lasciati dai cani gareggiavano in quantità sia con le margheritine, sia, addirittura, con i fili d’erba, era il loro ritrovo abituale, la domenica mattina. Perché in una calda e limpida domenica di maggio si svolsero gli eventi che qui esponiamo.
«Buongiorno, dottore», fece la vecchia illuminando il proprio volto con un sorriso gioviale che sarebbe stato piacevole a vedersi, se non avesse evidenziato una bocca quasi completamente sdentata. Intanto le altre donne, occupate chi a lavorare a maglia, chi a compulsare minuscoli giornaletti stropicciati, chi a prendere il sole a occhi chiusi con la faccia rivolta verso l’altro, chi semplicemente a conversare amabilmente nella nostra amata lingua, non avevano degnato di uno sguardo Pavel Ivanovic, con ciò offendendo profondamente, ancorché involontariamente, il suo amor proprio.
«Posso sedermi qui, fra tutte queste belle signore?», chiese con galanteria Pavel Ivanovic alla vecchia.
«La prego, barin», ribattè quella, onoratissima, levandosi in piedi e inchinandosi a Cicikov.
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Una mezz’oretta abbondante dopo l’incontro fra le babe e Pavel Ivanovic che abbiamo documentato, si trovò a passeggiare da quelle parti, come faceva sempre la domenica mattina, dopo la Messa delle nove e trenta, un altro uomo. Come Cicikov era di corporatura, altezza e bellezza assolutamente medie ma, e questo ci permettiamo di anticiparlo al lettore, la sua intelligenza era ben più che media. Questo secondo uomo procedeva lentamente e, lo si capiva subito, totalmente immerso nei propri pensieri. Indossava una linda finanziera, curiosamente di colore azzurro, dei pantaloni pure azzurri e si appoggiava con la piccola mano destra (la sinistra la teneva infilata fra due bottoni della suddetta finanziera) a un bastone nero con pomello d’avorio.
Chi era? Probabilmente il lettore lo avrà riconosciuto, e se aggiungiamo che la sua acconciatura «alla paggetto» gli attribuiva un’aria oltremodo giovanile, il medesimo lettore non avrà più dubbi: il grande scrittore Nikolaj Vasil’evic Gogol’!
«Nikolaj Vasil’evic! Nikolaj Vasil’evic!», urlò Cicikov non appena lo scorse, facendo sobbalzare l’intero gruppo delle babe presso le quali l’amministratore delegato ancora sedeva.
«Ma voi... voi se la memoria non m’inganna siete... Voi siete... il collezionista di anime morte», balbettò l’altro.
«Certo che lo sono. Sono proprio io, Pavel Ivanovic Cicikov. Ricordate, caro il mio Nikolaj Vasil’evic. Ah! Quanto tempo è passato...», fece Cicikov abbracciando e baciando lo scrittore al quale letteralmente doveva la vita.
Fu in quel preciso momento che dagli occhi di Nikolaj Vasil’evic, un po’ per l’emozione e un po’ a causa dell’energia con cui Pavel Ivanovic lo stringeva e lo stropicciava tutto, stillarono due lacrime che caddero, lo sa il Diavolo come mai, proprio sulle scarpe di Cicikov.
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Sarebbe troppo lungo e, quel che è peggio, troppo noioso per il lettore, se dessimo qui conto per esteso del dialogo che intercorse fra Nikolaj Vasil’evic e Pavel Ivanovic, quella domenica mattina, dapprima nello spelacchiato giardinetto, sotto gli sguardi stupiti delle babe, e poi in un grazioso ristorantino dove i due pranzarono. Accenneremo soltanto al contenuto più significativo, per il nostro dovere di cronisti, di quella sorprendente rimpatriata.
Fu soprattutto Pavel Ivanovic a parlare. Rivelò a Nikolaj Vasil’evic che la sua vita era cambiata, e di molto, rispetto ai bei tempi andati delle Anime morte. Ora non si limitava a collezionare le anime morte dei muziki facendole figurare come vive presso le autorità e dunque ipotecandole e traendone un vantaggio economico. Ora i suoi commerci si erano accresciuti e riguardavano... anche le anime vive.
Certo, un suo caro amico, direttore sanitario in una clinica che andava per la maggiore nella città di NN, gli aveva procurato, quale ricompensa per alcuni investimenti fruttuosi nel mercato immobiliare che Cicikov aveva proposto e, diciamo così... orientato, una percentuale non disprezzabile dei contributi statali che la clinica riceveva per certe operazioni chirurgiche effettuate, per l’appunto, su pazienti già deceduti. E poi c’era quell’affaruccio che andava sempre liscio come l’olio della cremazione di salme... inesistenti. Per metterlo in piedi erano bastate a Pavel Ivanovic alcune telefonate con un famoso impresario di pompe funebri.
Ma ormai Cicikov era diventato un vero collettore di anime vive di vari tipi. Generalmente prediligeva i giovani o i giovanissimi. Operava così. Grazie alle aderenze che vantava fra i proprietari di locali notturni della città di NN e di altre città limitrofe, e grazie agli stretti rapporti instaurati da tempo con trafficanti (ma lui li chiamava «imprenditori») di sostanze stupefacenti, Pavel Ivanovic teneva in pugno le vite (ma lui insisteva a parlare, con trasporto mistico, di «anime», perché anima era una parola che davvero adorava) dei ragazzi e dei loro familiari. Avendo inoltre acquistato una sostanziosa partecipazione azionaria in una società che controllava alcune aziende specializzate nell’offrire lavoro temporaneo, di quei giovani, e delle loro famiglie, si può dire che egli fosse l’angelo custode, orientandone di lontano, con discrezione, da un lato i bisogni, e dall’altro le possibilità stesse di soddisfarli. Con gli adulti, diciamo con gli over 25, Pavel Ivanovic lavorava poco, se si eccettuavano certe informazioni su alcuni titoli di Borsa opportunamente filtrate e riadattate e certi non meglio identificati «derivati» finanziari che lui caldamente consigliava. Le anime degli adulti, diceva, erano ormai perdute per la causa. Mentre i vecchi... i vecchi li amava tutti. Anche perché, quando non morivano, in gran numero affollavano le case di riposo, e visto che la clinica del suo amico era legata a doppio filo con tre ospizi che contavano nel complesso oltre mille posti...
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Intorno alle tre del pomeriggio, quella domenica, sulle panchine che il lettore ormai ben conosce, erano rimaste due sole babe. Una di quelle che prima lavorava a maglia e un’altra di quelle che si crogiolavano al sole. Presso di loro andò a sedere, stanchissimo e pallido in volto, Nikolaj Vasil’evic. Pareva invecchiato di vent’anni in poche ore.
«Barin, che avete? Vi sentite male?», chiese la più giovane.
«Avete bisogno di un medico?», si preoccupò la sua compagna.
Dalla bocca del povero Gogol’ uscirono molte parole che le brave babe non compresero. Una sola frase parve loro di cogliere, nel delirio febbrile dello scrittore: «Pavel Ivanovic, Pavel Ivanovic... figlio mio... perdonami».
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