Cesare G. Romana
da Sanremo
Il festival sinoltra nella sua seconda serata, e già cadono le prime teste. Cè chi si ritrova in tasca un biglietto daccesso alla finale, chi esce di scena con un biglietto di ritorno a casa e un sogno che si sbriciola. Come Anna Oxa, incredibilmente ma non inaspettatamente bocciata dai cosiddetti giurati, e con lei il bravissimo Mario Venuti, il favorito dai pronostici Gianluca Grignani e i «giovani» Virginio, Antonello e gli interessanti Deasonika. Il verdetto scatenerà giuste polemiche, e intanto fioriscono, nelle retrovie festivaliere, le spicciole diatribe di cui Sanremo salimenta da oltre mezzo secolo, e che questanno mantengono una curiosa allure burocratica. Come quelle, e sono più o meno le uniche, che riguardano il regolamento, rigoroso e disatteso come è giusto che ai regolamenti accada.
Cè il caso, appunto, di Anna Oxa, che per il suo Processo a me stessa, il momento più alto e più incompreso del festival, avrebbe concordato con lorganizzazione un certo minutaggio - è tipico dei regolamenti, misurare lispirazione artistica secondo larida legge dei numeri -, poi, lunedì, avrebbe disatteso la promessa e i burosauri della kermesse avrebbero così minacciato, ieri, di sfumarne lesibizione, se lo sforamento si fosse ripetuto. Il che non è accaduto, e la Oxa ha regolarmente replicato il suo brano, sia pure con qualche sforbiciata. Poi cè la polemica con i Ragazzi di Scampia, rei di cantare in napoletano in un festival della canzone italiana. Ma qualcuno si è ricordato che, dal 1861, Napoli fa parte dellItalia, e anche questa «violazione» è stata benignamente tollerata. Ma data laria che tira, si capisce come Dolcenera abbia cambiato l«affanculo» della sua canzone in un più asettico «andare lontano», che non vuol dire granché ma lha preservata da noiose conseguenze.
Seconda serata, dunque, aperta da un finalmente spassoso monologo di Panariello sulla par condicio, e musicalmente inaugurata proprio dalla Oxa. Che si materializza lentamente dal buio, canta col pianto in agguato, salta in omaggio ai burocrati la prima strofa del suo brano, ha la ferina teatralità duna Diamanda Galas e questa volta un missaggio adeguato lascia intendere le parole bellissime scritte per lei da Pasquale Panella. Poi arrivano i Sugarfree, a ricordarci che siamo a Sanremo, e tra la prima e la seconda canzone sallarga un abisso. Che non si colma con Gianluca Grignani - il vice-Vasco non ci risparmia una lapidaria definizione di Cristo, descritto come «la più grande rockstar della storia» per aver detto che «gli ultimi saranno i primi» -, figurarsi poi con la Tatangelo, si riduce un poco con Mario Venuti e con Ron, resta invariato con la pur brava Nicky Nicolai e con i Ragazzi di Scampia. Quindi arriva Povia e segue fuori gara Riccardo Cocciante, minuto e magnetico, venuto a ritirare un meritato premio alla carriera e ad emozionarci, emozionatissimo, con Bella senzanima e con Margherita.
È solo a questo punto che nellalbero maestro della kermesse sinnesta il fragile ramoscello del girone giovanile. Che secondo logica dovrebbe essere riservato ad artisti esordienti, e invece si apre con Simone Cristicchi, già popolarissimo grazie al boom estivo della sua Vorrei cantare come Biagio Antonacci, divertente esempio di metalinguaggio canoro, ovvero di canzonetta che sinterroga sulla canzonetta, in un lepido gioco di rimandi. Fa tenerezza Monia Russo, sanremese e mascotte, con i suoi ben carrozzati diciassette anni, della kermesse, seguono, scortati dallorchestra assemblata e guidata dal maestro Renato Serio, Virginio e la brava Helena Hellwig, i Deasonika, con la loro nenia neopsichedelica, si elevano di parecchie misure sul livello medio, Antonello convince più per la voce che per la caratura del brano affidatogli. E mentre i giurati demoscopici, sparpagliati per lItalia, consumano in gran segreto i loro misfatti, Hilary Duff guadagna il palcoscenico come superospite, cortesemente applaudita da una platea in cui Giorgio Faletti, in procinto di licenziare il suo terzo romanzo, monopolizza lattenzione delle telecamere.
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