Può suonare strano, nel 2020, trovarsi a combattere la censura - orrore che credevamo superato in Occidente - solo perché ha cambiato nome in cancel culture. Però va fatto.
Prima si parlava di politically correct, una strisciante forma di intolleranza travestita da buona educazione, contro cui per anni il mondo liberale e conservatore ha combattuto una battaglia senza tregua, mentre la Sinistra collaborazionista restava zitta, sciacquandosi la bocca con l'hate speech. Ma adesso il gioco si fa più serio. Il nuovo mostro è la cancel culture, pericolosissimo upgrade del politicamente corretto. Mentre il secondo si preoccupa di boicottare un singolo libro, un'opera o film non conformista, la prima fa un passo ulteriore: mette in discussione lo stesso diritto di qualcuno a parlare o a scrivere in ambito pubblico. La cancel culture, una political correctness impacchettata in una confezione di lusso, è quel fenomeno per cui, ad esempio, una major cinematografica, o un editore, o un'università, o il consiglio comunale di una città, spaventati dall'idea di essere demonizzati da una folla inferocita, in piazza o sui social, composta da minoranze nere, gialle, femmine o arcobaleno, rinunciano a fare il proprio lavoro: produrre cultura. Togliendo posti di lavoro (ed è il meno) e azzerando il confronto (ed è il guaio). Il tutto, politicamente molto orientato. Essendo la cosa partita negli Usa, si può dire - semplificando - che l'obiettivo della cancel culture è una culture senza Trump (è una battuta...).
Per fortuna, però, c'è chi si batte per cancellare la cancel culture. O per lo meno arginarla. Una decina di giorni fa è stato pubblicato su Harper's Magazine l'ormai celebre «Manifesto dei 150 intellettuali» contro i fanatici del Bene che vietano le opinioni sgradite e soffocano il dibattito. Una presa di posizione limpida e coraggiosa che per una volta ha ricompattato destra e sinistra, liberal e conservatori (anche se in Italia c'è stato qualcuno, come il fazioso sito Valigia blu, che ha voluto smorzare quello che resta un inno alla libertà di pensiero e di parola).
Ma oltre il «Manifesto» di Harper's Magazine esistono nel mondo anglosassone altre personalità che non hanno paura di esporsi pubblicamente per criticare l'onda lunga del politicamente corretto trasformatasi nello tsunami della cancel culture. Chi sono? Ad esempio lo scrittore Bret Easton Ellis, autore di culto, che nel pamphlet White (da noi pubblicato l'ottobre scorso da Einaudi col titolo Bianco), favorito anche dalla sua posizione di raffinato gay newyorkese, fa deliziosamente a pezzi la moda antitrumpiana, «correttista», pro Lgbt e antimaschilista denunciando le costrizioni ideologiche del Nuovo Ordine di Pensiero Mondiale. Da leggere. Poi c'è Ricky Gervais (nel fotino sotto), comico e attore inglese che ha ferocemente presentato ben cinque cerimonie dei Golden Globes. Col suo talento - è un maestro della stand-up comedy - può permettersi di infrangere tutti i tabù neri, femministi, green, arcobaleno... E a proposito di comici, va citato anche il satirista politico Andrew Doyle, irlandese, inventore del personaggio Titania McGrath che in un finto account Twitter si presenta come una giovane «poetessa radicale intersezionalista impegnata nel femminismo, nella giustizia sociale e nella protesta pacifica armata, che si identifica come polirazziale ed ecosessuale»... E purtroppo non c'è da ridere.
Poi ci sono due fra i migliori intellettuali liberali, gli economisti Walter Williams e Thomas Sowell, neri, i quali hanno sempre criticato la politica assistenziale razziale, trovando ingiusto per esempio che in un concorso di ammissione in Università si riservino posti ai candidati neri, che altro non è se non una discriminazione di segno opposto a scapito dei bianchi. Oppure il loro discepolo, Jason L. Riley, di destra, polemista conservatore, nero, che nel 2014 pubblicò Please Stop Helping Us: How Liberals Make It Harder for Blacks to Succeed (più o meno: Per favore piantatela di aiutarci: come i liberal rendono ai neri più difficile avere successo) e nel 2017 il libro False Black Power. Non teme di prendere posizioni scomodissime.
Altri due nomi. Douglas Murray, commentatore politico britannico tanto gay quanto brillante (quando si dice che la miglior critica alla follia gender l'ha scritta un omosessuale ...), autore del fragoroso saggio La pazzia delle folle. Gender, razza e identità (Neri Pozza, 2020) e dell'altrettanto scomodo La strana morte dell'Europa. Immigrazione, identità, islam (Neri Pozza, 2018). E Jordan Peterson (nel fotino sopra), psicologo e antropologo canadese diventato molto popolare quando nel 2016 pubblicò sul proprio canale YouTube una serie di video in cui criticava il progetto di Legge C-16 del governo canadese (che proponeva di aggiungere «l'identità o l'espressione di genere» alla lista di cause di discriminazione ai sensi del Canadian Human Rights Act!).
Le sue scorrettezze spaziano dal femminismo postmoderno al privilegio bianco, dall'appropriazione culturale all'ambientalismo. Sua la strepitosa risposta a un giornalista di Channel 4: «Per essere in grado di pensare, devi correre il rischio di essere offensivo».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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