Antiterrorismo in mano a giudici troppo politici

Antiterrorismo in mano a giudici troppo politici

Francesco Damato

Prima ancora che il ministro dell’Interno esponesse alla Camera l’affinamento della lotta al terrorismo dopo le stragi di Londra, l’Unità titolava martedì mattina a tutta pagina: «Le leggi “speciali” ci sono già ma loro non le applicano». E spiegava, sempre nel titolo: «I Ds denunciano: mai applicate le misure decise dopo l’11 settembre» di quattro anni fa, quando i terroristi islamici insanguinarono gli Stati Uniti abbattendo le famose torri gemelle di New York e assaltando il Pentagono.
Per «chiarire le idee» ai lettori il direttore del giornale diessino precisava quella mattina che per «loro» si deve intendere «il governo Berlusconi», responsabile di non avere «mai attuate per ragioni misteriose che un giorno andranno spiegate» le norme adottate nel 2001, con particolare riferimento a quelle sulle infiltrazioni spionistiche, sul coordinamento delle forze di polizia e sul controllo dei finanziamenti presumibilmente destinati al terrorismo.
Insomma la colpa è sempre di Berlusconi, dei suoi ministri, dei suoi alleati, masochisticamente inclini non a combattere il terrorismo, che pure da tempo ha messo il presidente del Consiglio nel mirino, ma a lasciargli fare quello che vuole. Ma appartiene alle disposizioni del 2001 anche quell’articolo del codice penale sul terrorismo internazionale che sei mesi fa un giudice in servizio a Milano interpretò in modo tale da assolvere tre musulmani che arruolavano attentatori suicidi da impiegare in Irak per praticare, secondo il magistrato, solo una legittima «guerriglia».
Si tratta dello stesso giudice che, evidentemente incoraggiato dal sostegno ottenuto in quell’occasione dalla sua associazione e dall’appendice ormai costituita dal Consiglio Superiore della Magistratura, ha protestato per strada qualche giorno fa contro vigili urbani e poliziotti che avevano inseguito e bloccato con una certa durezza un clandestino sorpreso senza biglietto su un mezzo pubblico e sottrattosi all’identificazione mandando un malcapitato controllore all’ospedale.
Quello che personalmente mi spaventa delle norme più o meno «speciali» che vengono periodicamente varate per combattere terrorismo, mafia ed altre forme di criminalità organizzata non è tanto l’abuso che possono farne le forze di polizia in presa diretta con gli avvenimenti, quanto l’applicazione che ne danno certi magistrati. La cui politicizzazione ha raggiunto ormai livelli intollerabili, aggravati dalla copertura che anche i più sfacciati di loro ottengono nelle maglie di quella che da «ordine», come è scritto nell’articolo 104 della Costituzione, è diventata una corporazione, la più potente e pericolosa di tutte, disponendo della libertà dei cittadini.
«Loro» - per tornare al titolo di prima pagina dell’Unità sui responsabili di una insufficiente lotta al terrorismo - non sono Berlusconi, i suoi ministri e i suoi alleati, ma i magistrati che possono disquisire fra terrorismo e guerriglia, o costruire con il pentitismo processi di mafia all’Andreotti, alla Carnevale, alla Mannino, alla Contrada, alla Dell’Utri senza compromettere mai la propria carriera, rigorosamente garantita e automatica.

In difesa della quale proprio oggi le toghe tornano a scioperare contro la pretesa - pensate un po’ - della maggioranza del Parlamento di approvare finalmente la settimana prossima la riforma dell’ordinamento giudiziario in un testo non gradito alla loro corporazione, per quanto più volte modificato per cercare di ridurne le resistenze.

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